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Tre operatori telefonici hanno incamerato cifre esorbitanti addebitando agli utenti servizi, peraltro, quasi inutili, comunque mai richiesti. È inquietante leggere titoli trionfalistici su inchieste che spuntano con gravissimo ritardo e su cui indagare è banale, dal momento che chiunque si accorge del raggiro, basta leggere i conti. Chiamando i call center e riuscendo a risalire all’operatore giusto si può ottenere un importante consiglio: controllate i servizi, chiamate e fatevi depennare quelli che non gradite. Sarebbe come se inviassero regolarmente a chiunque, astemi compresi, casse di vino trattenendo in automatico il pagamento dalla carta di credito. Silenzio-assenso, dunque, ma tutto unilaterale, aziende concorrenti fra loro, ma complici nelle truffe di massa. I metodi sono tanti, vanno dalla tecnologia “machine to machine”, comunicazione dati esclusivamente fra computer, a pagine web semplicemente aperte, senza aver cliccato su alcuna opzione. Diversi milioni di euro sequestrati dalla Guardia di Finanza, dirigenti e tecnici indagati. Ma più avanti vedremo se tutto questo esploderà e se lo Stato italiano piccolo piccolo riuscirà a contrastare i nuovi padroni di terra ed etere, i cui guadagni, leciti e illeciti, sono tali da comprare tutto e tutti. Ci si chiede, poi, se e quanti utenti abbiano segnalato questa palese violazione e perché sia passato tanto tempo, con tante truffe, tanti soldi dagli utenti a questi colossi violenti.

Violenti perché hanno, insieme con E-commerce e con le grandi organizzazioni commerciali, distrutto prima il rapporto umano, poi, di fatto, i diritti fondamentali, con la complicità di associazioni dei consumatori che spesso fingono di tutelare e vivono di marchette. Senza telefono e, soprattutto, senza Internet, nel terzo millennio, non si vive. Da qui lo smodato potere contrattuale delle compagnie. Ma i miraggi degli affari, il finto sconto perpetuo che, come un camaleonte, cambia colore e nome, ma resta sempre lo stesso, inducono ad acquisti compulsivi e affannosi, mettendo una paura di aumenti che non ci saranno mai. Ogni anno si buttano milioni di biglietti aerei low cost, come pure milioni di oggetti che rispondevano alle descrizioni, ma non all’uso miracoloso descritto dai dimostratori televisivi e multimediali. Massimo guadagno, scenografie adeguate, minime spese, Per risolvere il problema dei costi del personale molte aziende, usano persino il politically correct operando, invece, all’esatto contrario. Esempio, libreria impegnata a sinistra con caffè interno. Salotti, poltrone, nessun cartello che induca al self service. Se si chiede perché non arriva nessuno si viene trattati con sufficienza al confine col disprezzo: libreria democratica per auto-definizione, che però non assume ragazzi disoccupati e non fa nessuno sconto self-service agli avventori consapevoli e impegnati. E nemmeno agli altri malcapitati. Uno dei principali specchietti per allodole è il finto lusso. Chi sogna attraverso i film e guadagna ventimila all’anno, non sfugge a griffe indispensabili, con prezzi “da”, preposizione che quintuplica in automatico la cifra, e agli sconti “fino a”, normalmente un quinto della cifra sparata nei cartelli, e che si riferisce a uno o due capi inguardabili.

Nel turismo l’ultima trovata è la Dream room o peggio la Surprise hotel room. Per raccontare di aver dormito in un quattro stelle, nel primo caso, si ottiene un congruo sconto se si è disposti a farsi cambiare stanza ogni giorno. Comunque, raramente più grande di dodici metri quadri. Lo sconto si alza se si accetta addirittura il cambio di albergo, sempre ogni giorno. Insomma, mezza vacanza a fare e disfare valigie, ma questa genialata è venduta come esperienza eccitante. Sempre diversa. Ma il lusso non ha corpo, e non può essere definito. È sempre più raro, ed è nell’anima, nell’aria. Sceglie qualcuno, qualcun altro, no. E chi non è scelto, mai lo troverà su internet, che è anch’esso nell’aria, ma è troppo pesante. La parola lusso dovrebbe essere protetta da copyright, di proprietà di una stella che la concede raramente. L’illusione è gratis. Pagare l’illusione, però, costa tanto. Si sfoglia Booking.com, oppure Expedia, Trip Advisor. Voyage privé, Secret Escapes. Le stelle degli alberghi non sono imparentate con la stella del lusso, quella vera. Si clicca su cinque, poi si ammettono anche le quattro, solo se Hotel de Charme oppure Schloss hotel. Il fascino dei Boutique hotel è invece quello degli oggetti bene infiocchettati, ma a sorpresa.

L’illusione del lusso inizia con un esame attento delle dotazioni. E se vogliamo una botta di vita possiamo sognare un lusso a prezzi spesso dettati dai luoghi alla moda, non dalla sostanza. Meravigliosi gli elenchi di Booking.com. Per un hotel da quattromila euro a notte si specifica che il bagno è “privato”: vera gioia, con due mesi dello stipendio di un funzionario si può, per una sola notte, addirittura far pipì senza code nei corridoi dietro vestaglie che scaldano prostate ansiose. È talvolta indecifrabile la linea con cui sono gestite le indicazioni fornite dagli hotel aderenti. In molti casi si segnala la presenza di carta igienica, forse per rassicurare i lettori online che non comprano più quotidiani. In altri, ci si limita a sottolineare la fornitura di prodotti da bagno, “in omaggio”. Il cliente dovrebbe, a questo punto, definire donazione la propria retta giornaliera a tre zeri, tentando persino di dedurla dalle tasse. Sono presentate come omaggi le monodosi di shampoo e bagnoschiuma, l’impalpabile wi-fi, talvolta la colazione. Ovviamente le offerte sono lampo e imperdibili. Ogni giorno dell’anno. Il mercato del finto lusso rovescia il rapporto cliente-fornitore, attribuendo tutto il potere contrattuale a chi propone e non a chi deve accettare. Sul web la trappola è logica e raffinata. La generazione Z, quella nata dal 2000 in poi, ha con l’e-commerce lo stesso approccio delle donne degli anni 50 con la bottega all’angolo. I Millennials, dal 1980 in poi, hanno l’elasticità di adeguarsi. I Boomers, quelli del dopo-guerra, si dividono fra tecno-resistenti e analogici digitalizzati. Ma con tanta fatica.

Questi ultimi, spesso un po’ facoltosi, raramente ammettono di non essere aggiornati, e accettano passivamente regole vessatorie che i ragazzi sono molto più bravi a dribblare. Quello che i Boomers tentano di fare è contattare una voce umana. Ma non riusciranno quasi mai. Quelli più tosti cercheranno di minimizzare il proprio gap tecnologico e in questo sforzo subiranno passivamente le imposizioni: accettare diventerà un miraggio, non una forca caudina. Difficile, quasi impossibile, nella maggior parte dei casi, il dialogo con i mastodonti. Rari call center, per giunta, non sempre raggiungibili. L’opzione rifiuto dell’operatore che non risponde dall’Italia o dall’Europa è sciocca e, comunque, sconsigliabile. Ma la frustrazione massima è la mail no-reply: il mostro può tutto, il cliente, ormai acquisito e incatenato, non può rispondere, deve accontentarsi delle Faq, acronimo anglosassone che prevede tutte le domande che l’azienda accetta di ricevere, ovviamente mai quella che le vorremmo rivolgere.

Ci sono poi le opzioni, argomenti inutili e vacuamente filosofici, mentre noi volevamo segnalare che il device non funziona. Device, mai apparecchio, congegno, o altro italianismo desueto. L’Italia piombata nel terzo mondo culturale, ma che continua a pagare, e tanto, in valuta occidentale pregiata, si deve accontentare non solo di istruzioni, ma anche di descrizioni degli oggetti tradotte automaticamente dal cinese o dall’inglese. L’erosione di una lingua passa anche per queste viuzze commerciali, strette, ma capillari. Così iniziamo a trovare gente che ripete pedissequamente quello che vede stampato sul “device”: e “gioca il brano”, così il traduttore liquida il “play” di un lettore mp3. Ed è noioso elencare tutto il resto. A distanza di decenni si conferma drammaticamente la civiltà delle battaglie liberali, di Giovanni Malagodi in particolare, a favore della piccola e media impresa contro i mastodonti.

Aggiornato il 08 luglio 2020 alle ore 12:10