È la bella e solare figura di Vanessa Incontrada che campeggia sulla copertina del settimanale Vanity Fair di questa settimana, a suscitare le attenzioni dei lettori, sempre meglio di quelle dovute alla trascorsa immagine di Chiara Ferragni in più “santificate” vesti. Inutile dire che chi scrive si trovi totalmente dalla parte della bella e simpatica soubrette catalana, giudicata in passato “sovrappeso” e perciò sottoposta a quella gogna mediatica frutto delle menti (se esistono) perverse di coloro che non potendo godere di tanta bellezza muliebre, devono allora criticarla. È l’antico racconto di Esopo, de La volpe e l’uva, nulla di nuovo dunque sotto all’odierno sole. L’inutile, gratuita crudeltà delle critiche, nasconde quindi più ancora che l’invidia e il desiderio mal represso, soltanto l’ignoranza più crassa, quell’ignoranza che non permette di comprendere come nulla sia più eccitante, affascinante e anche erotico, del sorriso e della risata d’una bella donna. Certo, se lei dovesse ridere mentre vi siete appena tolti le mutande, sarebbe imbarazzante, ma non è questo il caso, e poche star televisive hanno una risata più suggestiva di quella dell’Incontrada, anche con tutti il suo “sovrappeso”. Detto questo, poi, per passare a un livello più colto, mi piace ricordare ai denigratori, evidentemente amanti di figure femminili irreali e costruite a tavolino, più simili ad un attaccapanni che ad una donna vera, come l’arte abbia sempre – o spesso – valorizzato le curve e le morbide rotondità anche quando il “canone” estetico ricercava la donna angelicata.

Sotto certi eterei panni gotici, sino all’età vittoriana e persino nella Belle Epoque, si nascondono dolci colline e profonde valli di carne, e sebbene Salvador Dalì decantasse il “bellissimo scheletro” dell’allora semisconosciuta sua modella, Amanda Lear, in realtà sono e saranno sempre seni, glutei e cosce tornite ad affascinare l’artista e non solo lui. Ecco allora le veneri di Tiziano Vecellio, languidamente sdraiate sui triclini purpurei d’una Rinascenza fatta di sangue e d’oro contendersi la palma della bellezza con le opulente carni dei ritratti di Pieter Paul Rubens, o ancora con le virtù nascoste sotto le ampie vesti di broccato delle modelle-amanti di Dante Gabriel Rossetti. Se chi oggi, povero dedito all’onanismo digitale che vorrebbero oggi imporci per legge anti-Covid, riuscisse a provare almeno un vago senso d’eccitazione nel gettare lo sguardo sui fianchi eburnei della modella che posò per la Danae di Gustav Klimt, già sarebbe sulla buona strada per un possibile recupero della propria, personale, sanità mentale.

Quanto somiglia infatti la donna in quel dipinto, nei suoi lunghi, fluenti capelli d’oro rosso alla vituperata Vanessa? In conclusione, dietro tutto questo, non è il variare dei gusti e delle mode, non è il mutare dei costumi e dunque con esso il modo di guardare, ma esiste soltanto una triste caduta della capacità di concepire la bellezza da parte delle generazioni digitali, da parte di coloro che privi di vita propria, ne usano una fittizia nella disperata ricerca di un’esistenza che non potranno mai avere, proprio perché incapaci di vivere e godere appieno delle gioie della vita; gioie che sono date anche appunto dal morbido abbraccio di chi si ama per ciò che è e non per come vorrebbero imporci fosse. E allora leggere ciò che cantano nei loro versi Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire e Algernon Swinburne forse potrebbe far meglio alle menti, ai cuori e a qualche altro organo di questa sfortunata genia che popola il tanto, troppo, atteso Ventunesimo secolo, che contrariamente a tutti gli altri che lo hanno preceduto non ha dato un nuovo impulso all’intelligenza né alle arti, ma giace in una morta gora di tristezza e repressione. Tenetevi dunque il vostro becero moralismo, il vostro bigottismo luterano, continuerò a preferire il più dolce dei peccati, il più degno di perdono, quello della carne.

Aggiornato il 30 settembre 2020 alle ore 11:32