Piazza Ebbasta

martedì 24 novembre 2020


Sfera Ebbasta non è un rapper, ma un trapper. I ragazzi sanno la differenza, gli altri non sono interessati all’argomento, anche se a qualcuno trapper ricorda Blek Macigno, fumetto degli anni Cinquanta. Ma il tatuatissimo Gionata Boschetti, con il fumetto, non c’entra. C’entra, invece, con la strage di Corinaldo nel 2018, anche se il responsabile non era certo lui che non si è neppure esibito in quella discoteca Lanterna Azzurra i cui proprietari avevano venduto 1400 biglietti mentre la capienza della sala era di 469 persone. Non fu certo lui a tenere sbarrate le porte d’emergenza né tantomeno a spruzzare lo spray urticante. Lo fece un imbecille incosciente che, in questo modo, provocò la morte di sei ragazzi e il ferimento di decine di altri giovani. Chi ha capito che Sfera Ebbasta non aveva provocato nulla ma, anzi, era un ottimo fenomeno di marketing, è stato Giacomo Ghilardi, sindaco di Cinisello Balsamo, dove l’artista ventinovenne è cresciuto. Qualche giorno fa, il primo cittadino ha inscenato lo scoprimento di una targa con cui si dedica una piazza all’illustre. Ma, ha precisato, solo per tre mesi.

Cerimonietta, il trapper firma la placca con lo spray: tutto fra serio e faceto, eccetto le parole di Ghilardi, il quale esalta i successi ma soprattutto l’impegno sociale per i giovani da parte di Gionata. È vero che questa storia dell’impegno poteva anche risparmiarla, magari limitandosi a ricordare, ad esempio, un trentaseiesimo posto nella classifica mondiale di Spotify per l’album “Baby” i cui tredici brani si sono piazzati nei primi tredici posti della top 50 italiana. Il sindaco usa le leggi del mercato, e il mercato oggi è fatto di numeri, di follower, di like, di streaming, di YouTube, di Spotify e di tutto quello che molti non conoscono. Ma che consentono agli Sfera di guadagnare più di duecentomila euro al mese e di dire che, ancora, questo non gli Ebbasta.

I parenti delle vittime sono sempre da rispettare, anche se il loro dolore, talvolta, li spinge a sfuocare la realtà. E si scagliano contro il sindaco, che accusano ingiustamente di avere intitolato una piazza a quello che vedono come il responsabile di morti e ferimenti. E qui va aggiunto un puntuale sciacallaggio: chi sparge bufale nobilitandole con l’anglicismo “fake news” sa benissimo che nessuno dedica una piazza a un vivente e in modo così spicciolo. Ma una fetta preoccupante del popolo social è come i bambini piccoli: non sa leggere e guarda solo le figure. E poi scrive quello che non sa, mentre lo sciacallo si autoproclama comunicatore e mira a casaccio con precisione millimetrica. Sapendo che un certo pubblico si adira a comando, non ricorda gli eventi, ma solo vaghe immagini, concetti storpiati dalla superficialità e polverizzati dal tempo. E che lo sdegno automatico è garanzia di qualità nell’esercito dei social-duri e puri: “E poi questa non è musica, è tutto scritto dai computer. Le parole sono anti-educative. E chi lo dice che ha successo se non ci sono più i dischi?”.

Morale: nessuna generazione, da qualche milione di anni, riesce a resistere al copione che la induce, sedicenne, a difendere i Beatles per poi, a sessant’anni, insultare i trapper. La stessa tecnologia che supporta gli Sfera, però, è indulgente con gli attempati, ai quale permette di riascoltare il loro mondo anche se nei tanti traslochi hanno perso i vecchi dischi. O li hanno regalati. O rigati. O prestati e addio. Chi di rap-streaming ferisce, di beat-streaming gioisce. Eight days a week.


di Gian Stefano Spoto