Vivere e convivere con il virus

Un lusso che non ci possiamo permettere. Non credo che alcuno più sottovaluti i rischi del Covid-19.

Peraltro che le risposte all’emergenza siano uguali a quelle messe in campo in altri Paesi è smentito dai peggiori numeri dei decessi e del Prodotto interno lordo nel nostro. A marzo ci hanno detto che il lockdown era indispensabile per non mandare al collasso il sistema sanitario e le terapie intensive. Giustissimo: guadagnare tempo per riattrezzarsi e mettere a punto protocolli e terapie. Nonostante sia passato quasi un anno dello scoppio dell’epidemia, migliaia di contagi continuano a registrarsi fra gli anziani, nei nosocomi, nei trasporti pubblici. E la rete di assistenza domiciliare è rimasta praticamente inesistente.

L’Arpa ha certificato che all’aperto la possibilità di contagiarsi è praticamente nulla, mentre alta è la concentrazione nell’aria delle abitazioni dei positivi. Poiché la maggior parte dei positivi sfugge al monitoraggio, la chance di contrarre l’infezione nel focolare domestico è realisticamente molto più alta che passeggiando col cane in un parco dopo le 22. Si entra, uno o due alla volta, in certi esercizi commerciali ma si viene stipati, come in carri bestiame, nella metropolitana e nei mezzi pubblici.

I giovani – più facilmente “portatori sani”, come abbiamo imparato – dovrebbero passare meno tempo possibile tra le mura domestiche a respirare la stessa aria dei più fragili. Paradossalmente, per proteggere i più fragili ci vorrebbe un lockout invece di un lockdown. È un paradosso, ma difficilmente confutabile.

Oggi Ilaria Capua ha dichiarato che l’epidemia non si estinguerà per i prossimi 2 anni. La campagna vaccinale, intanto, difficilmente arriverà a coprire l’80 per cento della popolazione entro 12 mesi, come annunciato dal Governo: servirebbero 300mila vaccini al giorno. Non solo nei posti pubblici ma anche somministrandoli al domicilio di allettati e ultraottantenni. Si precostituiscono alibi cercando di attribuire a no vax e presunti negazionisti il probabile insuccesso degli obiettivi sbandierati.

Quando sarà stato inoculato il quarantamilionesimo cittadino, si potrebbe dover ricominciare con ulteriori successive dosi di richiamo del primo vaccinato. Perché, come ammesso dai produttori, il vaccino potrebbe non garantire oltre 6 mesi o un anno di protezione. Ma non si sa ancora.

Poi ci sono le mutazioni del coronavirus: le varianti inglese, sudafricana, brasiliana e le altre che verranno. Ne hanno contate a centinaia. Alcune più infettive e quindi più mortali del ceppo originario. Non si sa se gli attuali preparati copriranno tutte le, note e future, varianti. Altri, più o meno lunghi iter, potrebbero servire per mettere in campo vaccini “aggiornati” che necessiteranno, a loro volta, di nuova approvazione regolatoria. E i casi di fallimento vaccinale, etc.. L’agognata immunità di gregge potrebbe essere inseguita senza essere mai raggiunta per lungo tempo.

In uno scenario del genere – e chi scrive spera ovviamente il contrario – c’è da cominciare a porsi il quesito di quali scelte fare per il nostro futuro. Se continuare, indefinitamente, a vivere una vita, socialmente ed economicamente, sospesa, ammesso che si abbia il lusso di poter scegliere. O prendere atto che, con il virus, si dovrà convivere anche senza prospettiva di tornare a quella normalità che ormai sembra sempre più un lontano ricordo.

“Non possiamo permetterci di tenere chiuso il Paese fino alla fine dei contagi. L’Italia deve imparare a convivere col virus.”

Lo ha dichiarato, pochi giorni fa, Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato tecnico-scientifico, non il becero negazionista di turno. Cominciamo almeno a porci il quesito ora, affinché non siano gli eventi a scegliere per noi, più tardi, la risposta.

Aggiornato il 15 gennaio 2021 alle ore 11:15