Per tornare a sperare di poter fare l’amore

Chi non lavora, non fa l’amore cantava Adriano Celentano negli anni Settanta. A lavorare passiamo gran parte della nostra giornata. Al lavoro dedichiamo gran parte delle nostre energie psico-fisiche. È grazie al lavoro che riusciamo a guadagnare il denaro che ci permette di vivere, di realizzare i nostri sogni, di occuparci delle nostre esigenze e delle esigenze della nostra famiglia. Quando manca il lavoro è come se ci mancasse la terra sotto i piedi. Il lavoro ci gratifica e ci rende vivi. La mancanza di lavoro ci fa sentire dei falliti, senza meta e senza dignità. Disoccupato, esodato, licenziato: termini che in tempi pandemici ricorrono frequentemente. Termini che sottintendono una condizione psichica di ansia, depressione, disperazione. Senza lavoro ci si sente senza dignità, senza valore. Ivano, Marco, Giovanna, Sabrina sono solo alcuni nomi della moltitudine, di uomini e donne, che oggi invocano la possibilità di avere un lavoro, che gridano forte la loro disperazione e il bisogno di poter dimostrare a se stessi e agli altri di essere utili, capaci, affidabili. Chi è senza lavoro ha certamente il portafoglio vuoto ma è soprattutto il vuoto interiore che genera il vissuto di “povertà”.

Negli anni Novanta il regista Peter Cattaneo mise in scena gli effetti della crisi economica in Gran Bretagna nel film “Full monty”. Cattaneo pose l’accento sulla negazione come meccanismo di difesa che la mente mette in atto per non affrontare la cruda realtà. Mentre gli operai si disperavano per il quotidiano, ma in qualche modo facevano resistenza alla depressione, il loro capo, un colletto bianco, usciva ogni giorno di casa in giacca e cravatta e non osava dire alla moglie che non aveva più un lavoro. Se ne vergognava, come se fosse colpa sua. La vergogna contribuisce a creare il senso di spaesamento, di emarginazione che spesso accompagna il vissuto psichico di chi si trova a vivere la disperata condizione di vuoto lavorativo. Vergogna, senso di colpa, solitudine e sentimenti di rivalsa e vendetta, sono i vissuti dolorosi di chi non trova una prima occupazione o di chi la perde. Oggi la disoccupazione può essere vista alla stregua di una vera emergenza sanitaria, non è soltanto un problema di bilanci o conti pubblici ma, come dimostrano recenti studi di psicologia sociale, è altissima la correlazione tra inoccupazione, lavoro precario e l’insorgenza di ansia, depressione, attacchi di panico, abuso di sostanze, condotte devianti e auto-distruttive, disturbi nella sfera affettiva e relazionale.

Troppo spesso le pagine dei giornali e le notizie dei telegiornali ci presentano storie drammatiche che hanno come protagonisti il dolore e la disperazione di persone che hanno perso il lavoro e che non riescono più a tollerare la frustrazione di percepirsi ed essere percepiti dei “parassiti”, dei “nullafacenti”, dei “pesi per la società”. Se chi è senza lavoro riuscisse a concepire che la disoccupazione rappresenta un vissuto emotivo simile ad un lutto, forse riuscirebbe a chiedere aiuto, a farsi aiutare ad elaborare i sentimenti di angoscia, disperazione, impotenza, vergogna e colpa che soffocano la speranza e la fiducia nelle proprie capacità. La fiducia è elemento indispensabile per poter tornare a sperare, è elemento indispensabile per poter tornare ad ascoltare i propri bisogni e a ridare vitalità alle proprie risorse ed energie. Risorse ed energie che l’imprenditore milionario Chris Gardner non esitò a mettere in campo quando, negli anni Ottanta, visse giorni di intensa povertà, senza casa e con un figlio a carico. La storia del milionario disperato è stata riprodotta nel film “La ricerca della felicità”. Una ricerca difficile ma anche possibile se si seguono le orme di Chris e se si sceglie di “combattere” e non di soccombere, se si sceglie di condividere e non di isolarsi, se si sceglie di affrontare e non di far finta di niente, se si sceglie di andare e non di rimanere fermi, se si sceglie di concepire che “non vi è alcun sentiero verso la felicità: la felicità è il sentiero” (Buddha). Il sentiero che una società può provare a tracciare in questo momento pandemico potrebbe essere quello di creare opportunità di sostegno psicologico, che possa fornire alle donne e agli uomini in difficoltà lavorativa un contesto di condivisione e scambio. Prendersi cura della salute mentale dei lavoratori in difficoltà è creare le basi per promuovere un circuito virtuoso, di speranza e fiducia, contro l’isolamento e la disperazione.

(*) Psicoanalista e docente universitario di Psicologia generale

 

Aggiornato il 19 gennaio 2021 alle ore 11:46