Il filosofo Raoul

martedì 16 marzo 2021


La Romagna è l’apoteosi della semplicità che diventa cultura, quella che se ne frega della maiuscola e la lascia a chi ansima per mostrare il proprio Vuoto. Per Raoul Casadei non serve un epitaffio, ma una pausa. E non di riflessione, perché il lissio non si ferma mai. Una pausa di commiserazione per chi snobba quello che tanti amano: la formula magica dello star bene. E c’è una lezione nel sorriso di Raoul, quando racconta di un signore che gli ha telefonato per chiedergli un disco, si vergognava a comprarlo in negozio: “Certo che gliel’ho mandato, sono contento che gli piaccia la mia musica!”.

Il liscio non è un ballo, è un anestetico, una droga dell’anima senza effetti collaterali, se non quello di svegliarsi dal sogno e riprendere la routine. È l’antitesi dell’odio: infatti ha un nome italiano con pronuncia sorridente, mentre gli odiatori, quei pericolosi frustrati che prendono di mira i personaggi pubblici per sentirsi protagonisti, si chiamano hater, termine inglese che menti malate ritengono nobilitante. Sull’antica rivalità fra le due famiglie del Liscio, Casadei e Castellina-Pasi, ai tempi del capostipite Secondo, si diceva che Casadei suonava zum-pa-pa e Castellina pa-pa-zum. Ovviamente era una battuta, ma i non adepti forse ignorano le dinamiche di mazurke e tanghi con discipline degne di Carla Fracci.

Tanti anni fa girai per la Rai dell’Emilia-Romagna una piccola serie sulle balere, di cui sapevo poco o nulla. Una non giovane ballerina mi fece da guida. Per un po’ osservai personaggi, balli, abbigliamenti e mi sembrò la solita storia di chi punta alle più belle e giovani per la parte più interessante della serata, all’uscita dal locale. Ma la mia telecronista, in un orecchio, mi dava le dritte su quello che dovevo inquadrare con i miei occhi: anziano, magrissimo, bruttissimo, malvestito indica con gesto flebile una diciottenne molto carina, trepidante, gonna quasi simbolica. Valzer, un giro di pista, poi il vecchietto la parcheggia e la congeda con un rispettoso cenno del capo. Non mi torna, ma la guida mi spiega che la ragazza non era all’altezza, così l’omino aveva cambiato damigella, e con questa aveva ballato tutto il resto della mazurka. Poi i miei occhi cambiano focale e mi accorgo di un nutritissimo gruppo di ragazzine, che sognano un ballo con il mostriciattolo. La guida mi chiede se ho capito: il liscio, al di là di piazze gaudenti, è anche una disciplina severissima. E a questi livelli l’attrazione fisica non conta: un passo falso e sei fuori. Lo raccontava molto bene il cantautore bolognese, Dino Sarti, nel suo “Tango imbezèl”, storia di un ballerino che voleva conquistare la mitica Luisa, ma quando viene il suo turno l’orchestra annuncia “a gran richiesta, il tango Gelosia”, e lui ammette, in bolognese “al tango me ‘n l’aviva mai studié”. Così lei lo scarica subito.

Ora che Raoul se n’è andato, un po’ di Italia fighetta lo commemora perché è la notizia del giorno. O meglio, lo cita, ne accenna per dovere di cronaca, perché tutti sono cronisti di un mondo che spacciano per vero. Ma subito dopo l’intellighenzia con la puzzetta sotto il naso riprenderà a parlare di Milan Kundera, trattandolo come un proprio allievo.


di Gian Stefano Spoto