Sezioni Unite e crocifisso: perplessità sulla regola del caso per caso

Con la sentenza n. 24414 del 9 settembre 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno risolto la questione di massima di particolare importanza loro rimessa dalla Sezione Lavoro con una decisione di indubbio interesse, che in tema di libertà di religione in uno spazio pubblico qualificato, quale l’aula scolastica, indica come metodo di approccio alla controversia la via della soluzione mite, del passo di ciascuno in direzione dell’altro, e affida alla valutazione dei singoli istituti scolastici la decisione sulle diverse istanze di studenti e docenti, in una prospettiva di “ragionevole accomodamento” dagli incerti confini. Nel commento che segue una prima analisi della sentenza e dei principi di diritto in essa enucleati, dopo il primissimo commento il giorno della pubblicazione. Con la sentenza n. 24414 del 9 settembre 2021 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno deciso la nota vertenza avente ad oggetto la questione dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, ad esse veicolata attraverso il ricorso a suo tempo proposto da un docente di ruolo di materie letterarie che aveva – in estrema sintesi – lamentato la violazione del principio di laicità dello Stato e la cosiddettadiscriminazione indiretta di derivazione euro-unitaria delineata dall’articolo 2, paragrafo 2, lettera b) della direttiva 27 novembre 2000 n. 2000/78/Ce (recepita in Italia dal decreto legislativo del 9 luglio 2003 n. 216).

All’esito di un articolata dissertazione, le Sezioni Unite hanno da un lato concluso che la circolare del dirigente scolastico relativa all’esposizione del crocifisso nell’aula “non integra una forma di discriminazione a causa della religione nei confronti del docente perché, recependo la volontà degli studenti in ordine alla presenza del crocifisso, il dirigente scolastico non ha connotato in senso religioso l’esercizio della funzione pubblica di insegnamento, né ha condizionato la libertà di espressione culturale del docente dissenziente”; dall’altro hanno enucleato principi di diritto di assoluta rilevanza, stabilendo che: “In base alla Costituzione repubblicana, ispirata al principio di laicità dello Stato e alla salvaguardia della libertà religiosa positiva e negativa, non è consentita, nelle aule delle scuole pubbliche, l’affissione obbligatoria, per determinazione dei pubblici poteri, del simbolo religioso del crocifisso”; “l’articolo 118 del Regio decreto n. 965 del 1924, che comprende il crocifisso tra gli arredi scolastici, deve essere interpretato in conformità alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione, nel senso che la comunità scolastica può decidere di esporre il crocifisso in aula con valutazione che sia frutto del rispetto delle convinzioni di tutti i componenti della medesima comunità, ricercando un “ragionevole accomodamento” tra eventuali posizioni difformi”.

La pronuncia delle Sezioni Unite merita una nota di apprezzamento per la sensibilità che il Supremo Collegio mostra di riservare al delicato tema della libertà religiosa e per l’approfondimento dei singoli aspetti che concorrono a definire il mosaico all’interno del quale vengono tratteggiati i diritti e le libertà di tutti i protagonisti della vicenda sottoposta al suo esame. Seppur inserita in tale solida cornice, la tela che ne risulta non è però del tutto chiara e l’armonia delle forme disegnate dai giudici di Piazza Cavour appare in alcuni tratti illuminata da un fuoco crepuscolare. Andiamo, comunque, per gradi. Anzitutto il contesto, che è quello di uno spazio pubblico qualificato, ovverosia un’aula scolastica. Le peculiarità del caso sono riconducibili al fatto che stavolta la questione non è posta da uno studente – come era successo, ad esempio, nel caso deciso dalla Corte Edu con la nota sentenza Lautsi versus Italia – ma da un docente; l’assemblea degli studenti aveva, infatti, deciso di esporre il crocifisso nella propria aula durante tutte le ore di lezione, incluse quelle del docente dissenziente.

Le Sezioni Unite sono, quindi, chiamate a rintracciare anzitutto quale sia il presupposto normativo sul quale si fonda la delibera degli studenti di esporre il crocifisso in aula: “l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non è prevista da alcuna disposizione di rango legislativo, ma è, essa stessa, affidata e appesa a un quadro normativo fragile, sia per il grado non primario della fonte che detta esposizione contempla, sia, soprattutto, per l’epoca pre-costituzionale della emanazione della relativa disciplina, un’epoca segnata, tra l’altro, da un confessionalismo di Stato e da una struttura fortemente accentrata e autoritaria dello Stato stesso”. Le disposizioni in questione sono l’articolo 118 del regio decreto 30 aprile 1924 n. 965 e l’articolo 119 del regio decreto 26 aprile 1928 n. 1297: il primo si riferisce agli arredi delle scuole medie, il secondo a quelli delle scuole elementari.

Non esiste, dunque, expressis verbis, una disposizione specifica per le scuole superiori; e, tuttavia, “il Collegio delle Sezioni Unite ritiene, seguendo il pubblico ministero, che la norma regolamentare contenuta nell’articolo 118 del regio decreto n. 965 del 1924 si riferisca anche alle scuole superiori”: Ciò perché il termine “istruzione media” usato nel regio decreto per la Corte deve essere letto “secondo la strutturazione del sistema scolastico al momento della introduzione della disciplina” e in quel contesto gli istituti medi di istruzione erano di primo e di secondo grado (quest’ultimo assimilabile a quello oggetto di causa). L’individuazione di una norma di riferimento non esaurisce tuttavia l’indagine delle Sezioni Unite, che subito dopo ne verificano la tenuta in relazione al “nuovo” assetto costituzionale repubblicano, improntato al principio di laicità dello Stato e di separazione tra la sfera civile e quella religiosa. La Corte ritiene necessario procedere a un’interpretazione del regio decreto “in senso conforme alla Costituzione e alla legislazione che dei principi costituzionali costituisce svolgimento e attuazione”.

È la parte più controversa della pronuncia. Nel mutato quadro costituzionale “l’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale”. Per le Sezioni Unite “il crocifisso di Stato nelle scuole pubbliche entra in conflitto anche con un altro corollario della laicità: l’imparzialità e l’equidistanza che devono essere mantenute dalle pubbliche istituzioni nei confronti di tutte le religioni”. E allora l’esposizione del crocifisso non è più atto dovuto, non essendo costituzionalmente consentito imporne la presenza, ma la disposizione regolamentare contenuta nell’articolo 118 del regio decreto n. 965 del 1924 “va interpretata nel senso che l’aula può accoglierne la presenza allorquando la comunità scolastica interessata valuti e decida in autonomia di esporlo, nel rispetto e nella salvaguardia delle convinzioni di tutti, affiancando al crocifisso, in caso di richiesta, gli altri simboli delle fedi religiose presenti all’interno della stessa comunità scolastica e ricercando un ragionevole accomodamento che consenta di favorire la convivenza delle pluralità”. Si tratta di una “interpretazione evolutiva”, che tramuta l’obbligo in facoltà, ispirata ad un principio di “universalismo concreto” aperto alla “pluralità dei simboli” e teso alla ricerca di una “soluzione mite”; così la Corte rimanda le scelte alla logica del caso per caso “alla luce delle concrete esigenze, nei singoli istituti scolastici, con la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti e con il metodo della ricerca del più ampio consenso”.

Le premesse da cui muovono le Sezioni Unite sono buone, ma la conclusione non convince fino in fondo. Da un lato sembra scongiurato il rischio del cosiddetta muro bianco: “la laicità italiana non è “neutralizzante”: non nega le peculiarità e le identità di ogni credo e non persegue un obiettivo di tendenziale e progressiva irrilevanza del sentimento religioso, destinato a rimanere nella intimità della coscienza dell’individuo. La laicità della Costituzione si fonda su un concetto inclusivo e aperto di neutralità e non escludente di secolarizzazione”; dall’altro, la Corte apre all’opposto eccesso del muro che qualcuno ha definito “barocco” “con l’affissione di simboli di altre fedi religiose o di altre convinzioni ideali o filosofiche presenti nella classe”. In tal modo però le Sezioni Unite sembrano di fatto sconfessare il loro stesso assunto per cui “il crocifisso, proprio in quanto espressivo di un’esperienza religiosa, descrive anche uno dei tratti del patrimonio culturale italiano e rappresenta una storia e una tradizione di popolo. L’Italia ha infatti profonde radici cristiane, intrecciate con quelle umanistiche. Lo testimoniano – è stato autorevolmente affermato – “le sue città, i suoi borghi antichi, le sue cattedrali, la sua arte”. È in tale assunto che si sintetizza la specificità del crocifisso rispetto a qualsiasi altro simbolo di diversa fede ed è per tale specificità che ancor oggi si giustifica l’inclusione del simbolo cristiano tra gli arredi laici delle scuole italiane. Tale specifico carattere conferisce al crocifisso il necessario rango e una dignità assiologica “laica”, che gli consente di occupare le pareti di uno spazio pubblico qualificato così importante come l’aula di una scuola (dignità e rango non possono attribuirsi ai simboli di nessun’altra fede religiosa, convinzioni ideale o filosofica); al tempo stesso lo libera da qualsiasi equivoco che induca a ritenerlo mero atto di proselitismo o propaganda. Di questo è consapevole anche la Corte: “Il Collegio rimarca, seguendo l’insegnamento della Grande Camera nel caso Lautsi, che il crocifisso appeso al muro di un’aula scolastica è un simbolo essenzialmente passivo, poiché non implica da parte del potenziale destinatario del messaggio alcun atto, neppure implicito, di adesione ad esso. Nella sua fissità e nella sua dimensione statica, esso non pretende osservanza e riverenza. Parla soltanto a chi, credente o non credente, si pone rispetto ad esso in atteggiamento di volontario ascolto”.

Su queste premesse allora forse la Corte avrebbe potuto diversamente modulare i termini del ragionevole accomodamento, inteso “come ricerca, insieme, di una soluzione mite, intermedia, capace di soddisfare le diverse posizioni nella misura concretamente possibile, in cui tutti concedono qualcosa facendo, ciascuno, un passo in direzione dell’altro”. È utile, in proposito, ricordare che la reasonable accomodation è un parametro di derivazione nord americana, il cui campo privilegiato di operatività “è costituito dall’ambito dei rapporti giuslavoristici (pubblici e privati)”, che “si cristallizza successivamente nella giurisprudenza della Corte Suprema statunitense in materia di tutela della libertà di esercizio della religione, e si coagula, come è noto, intorno all’idea che un onere a carico della libertà religiosa possa giustificarsi solo qualora costituisca il mezzo meno restrittivo per realizzare un compelling state interest”. In Europa, peraltro, “l’espressione “ragionevole accomodamento” è solo emersa sporadicamente nel registro linguistico di alcuni giudici della Corte europea, quale parametro da “incorporare” nella valutazione di proporzionalità, che esige che il fine legittimo venga perseguito avvalendosi dei “mezzi meno restrittivi” allorquando si configuri una interferenza con l’esercizio della libertà religiosa e siano possibili modalità alternative di perseguire il medesimo fine. Il caso Eweida segna, a detta di molti, l’estensione della Corte della cornice delineata dai principi convenzionali (articolo 9 Cedu letto congiuntamente con l’articolo 14 Cedu) in direzione di un’apertura verso la logica del ragionevole accomodamento, almeno nell’ambito giuslavoristico”. Si è comunque rilevato a riguardo che “molti dubbi restano aperti circa la portata di questa decisione: manca un approccio globale al fenomeno che ne garantisca a pieno l’implementazione delle potenzialità. Innanzitutto, nel caso Eweida, la Corte si confronta con un contesto ordinamentale incline ad adottare un approccio accomodazionista verso le appartenenze minoritarie sia nella sfera pubblica sia in quella privata. Secondariamente, rimane più incerto se la Corte possa estendere la medesima logica ad altri contesti: in particolare, se parametri differenti vadano adoperati in ambiti di carattere pubblico (pubblico impiego, istituzioni pubbliche) e quindi se lo spazio per le politiche di accomodamento possa oltrepassare i confini della sfera privatistica per acquisire maggiore legittimità nello spazio pubblico”.

Ebbene, nel contesto in commento se è vero da un lato che il diritto alla libertà religiosa, in quanto diritto fondamentale, svolge un ruolo cosiddetta contro-maggioritario, nel senso che un ipotetico conflitto non può essere risolto con il semplice ricorso al criterio maggioritario (i diritti fondamentali sono posti a presidio, per l’appunto, delle minoranze), dall’altro non può neppure revocarsi in dubbio che il proscenio del quale si discute (l’aula scolastica) possiede una crisma del tutto particolare, una dimensione “pubblica” specifica e qualificata, che impone riflessioni ben diverse rispetto a quelle svolte nel contesto privato. In questo senso, l’apertura delle Sezioni Unite a tutti i simboli religiosi, tutti “sullo stesso piano”, e la prospettiva di una scuola “lago di Tiberiade”, momento di inclusione e di confronto, può apparire condivisibile e auspicabile laddove ci si riferisca all’esposizione di simboli religiosi del tipo, ad esempio, dei capi di abbigliamento; ma la presenza del crocifisso nelle aule si giustifica, come detto, per un quid pluris che solo tale simbolo possiede e che ad esso conferisce una rilevanza pubblica unica e non comparabile con nessun’altra effige.

La decisione della Corte va letta, peraltro, anche nella prospettiva di quella dottrina che da tempo ritiene “discutibile sciogliere il nodo dell’esposizione istituzionalizzata dei simboli religiosi ricorrendo a soluzioni “miti”, fondate sulla decisione discrezionale della maggioranza della comunità interessata dalla questione. La materia dei rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose è infatti riservata allo Stato, il quale deve fissarne i principi essenziali, garantendone l’uniforme applicazione sul territorio nazionale onde evitare che si disperdano nei meandri delle rivendicazioni e dei bizantinismi locali”.

Ciò non significa rifiutare la strada del ragionevole accomodamento proposta dalle Sezioni Unite, ma valorizzare quel margine di apprezzamento che la legislazione europea sui diritti umani e la giurisprudenza della Corte Edu tuttora riservano ai singoli Stati firmatari: “sebbene la Corte di Strasburgo abbia più volte riconosciuto nel pluralismo una condizione essenziale per la realizzazione di uno Stato democratico, il pluralismo della scuola incontra un limite nel margine di apprezzamento lasciato agli Stati contraenti. Il pluralismo nella scuola è delineato dalla Corte di Strasburgo come divieto di indottrinamento e, dunque, essenzialmente come libertà di pensiero e mancanza di ogni imposizione ideologica nell’insegnamento impartito nella scuola pubblica. L’indottrinamento è stato il punto di riferimento per risolvere anche le note controversie relative all’esposizione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche, laddove la Corte ha effettuato una valutazione della forza indottrinante degli stessi, in termini di capacità di condizionamento delle coscienze degli studenti, per poter stabilire se la loro esposizione fosse da ritenersi contraria alla Convenzione o meno. Tale valutazione ha condotto, come noto, a ritenere il crocifisso un simbolo “essenzialmente passivo” a cui non si può attribuire una influenza sugli alunni paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose e, dunque, a considerare la sua esposizione nelle aule delle scuole pubbliche non contraria al principio di libertà religiosa ed educativa. Diversamente, il velo islamico portato dall’insegnante di una scuola primaria pubblica è stato ritenuto un simbolo idoneo a produrre un effetto di proselitismo”.

Volendo giungere quindi a una conclusione, sembra potersi affermare che la decisione delle Sezioni Unite rischia di non essere sufficientemente puntuale nel tracciare i termini del ragionevole accomodamento sul crocifisso, rimesso al singolo istituto scolastico. In Italia l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche è giustificata non solo dalla speciale posizione che la Costituzione stessa riconosce alla religione cattolica (articolo 7 della Costituzione, Patti Lateranensi, Concordato) ma anche “dal valore culturale del cattolicesimo, che contribuisce a delineare l’identità della nazione italiana”. Il ragionevole accomodamento sul punto va calibrato anche in relazione tale aspetto, che distingue la fattispecie in esame dal diverso caso di una generica vertenza giuslavoristica in tema di libertà di religione (positiva e negativa): né il muro bianco (opzione preferita dallo studente o dal docente ateo) né l’esposizione di qualsiasi altro simbolo religioso (opzione preferita dallo studente o dal docente fedele di altra confessione religiosa) possiedono un pari valore storico, culturale e sociale nel contesto italiano.

Tale considerazione chiude, a mio avviso, il cerchio in tutti quei casi in cui l’auspicato passo in direzione dell’altro non porti a una soluzione condivisa; pur rispettosa del metodo proposto dalle Sezioni Unite e del ruolo contro-maggioritario proprio del diritto alla libertà di religione, essa offre una soluzione certa, impermeabile ai “bizantinismi locali” e in linea con la legislazione, la tradizione culturale italiana e con i parametri di cui alle fonti sovranazionali, che in tema di libertà religiosa riservano agli Stati un ampio margine di apprezzamento.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

 

Aggiornato il 15 settembre 2021 alle ore 17:58