Sull’aborto, torna la scomunica: “È omicidio”

Non finisce il clamore provocato dal film sull’aborto. Montano un caso e uno strappo. Il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia a L’événement, della regista Audrey Diwan, tratto dal libro autobiografico di Annie Ernaux, sulle dodici settimane in cui nella Francia antiabortista del 1963 la protagonista vuole interrompere la gravidanza, ha suscitato la reazione durissima della Chiesa. Per questo torniamo a parlarne a distanza di pochi giorni. Non ci si aspettava che papa Francesco, così aperto e tollerante, prendesse posizioni tanto forti. Ma il pontefice, nel viaggio di ritorno dall’Ungheria, sul tema ha lanciato un anatema categorico: “L’aborto è un omicidio, come assumere un sicario”, ha detto ai giornalisti. “Per questo la Chiesa è dura sull’argomento, perché se accettasse questo è come se accettasse l’omicidio quotidiano”.
Un’affermazione che si è scagliata come un fulmine sull’idillio tra il Vaticano e la sinistra. “Voglio essere più chiaro”, ha insistito Bergoglio. “È giusto uccidere una vita umana per risolvere un problema? Scientificamente è una vita umana. È giusto farla fuori per risolvere un problema? Chi fa un aborto uccide, senza mezze parole”.
Cosa è accaduto per indurre il Pontefice più comprensivo a una scomunica che rimandano il tempo indietro? Lo avevamo segnalato. Gli applausi e gli encomi al “film abortista” premiato a Venezia sono stati interpretati, sull’onda della propaganda, come un manifesto. “Il coraggio di abortire”, aveva esultato la paladina della legge 194 in Italia, Emma Bonino. Ma il film di Audrey Diwan non è cinema politico, punta a descrivere il calvario di una giovane donna e l’antro oscuro degli aborti clandestini. La narrazione dunque di uno spaccato femminile, uno dei più duri.

Ma, l’unilateralità, il solito politicamente corretto e il pensiero unico femminista hanno deviato il senso dell’opera in una sorta di “inno all’aborto”. Mentre l’intento della regista, e dell’autrice del libro, sicuramente è il racconto del dolore. Perché chi si è occupato di aborto non può che aver visto “dolore”. Non solo quello delle donne delle epoche antiabortiste, quando la legge non c’era, ma sempre. Perché l’aborto è quel “dolore che lascia senza fiato” che sale magistralmente dalla pellicola.
Ricordo una manifestazione ai tempi delle battaglie per la 194, in cui c’erano ragazzine che testimoniavano storie strazianti di umiliazioni e sofferenze fisiche. Tante sono anche morte sui tavolacci o nelle cliniche clandestine. Ricordo un’amica che, come la protagonista del film, scelse l’interruzione per motivi di lavoro. Non se lo è mai perdonato, nonostante il tanto conforto e sostegno. Questi vissuti li conosciamo. Le donne che hanno praticato l’aborto portano una “morte dentro”. Ed è devastante.
In questo senso il pronunciamento del Papa è davvero forte e riapre un dilemma per tutti. “Un omicidio”, ha riaffermato Bergoglio, il quale avrà voluto in particolare rivolgersi alle giovanissime e alle più povere, cioè alle donne con meno strumenti culturali, che rischiano di distorcere l’interruzione in una prassi.

Diceva un’immigrata: “Mi hanno messo su una sedia a rotelle appena varcata la porta e non mi era mai capitata tanta considerazione”. Tuttavia la questione dogmatica, che incardina la sacralità della maternità, non svuota la sofferenza intima, umana, biologica. Il messaggio ribadito dalla Chiesa cattolica è la vita, il dono della vita, non la libertà di spegnerla. La forza della femminilità è la procreazione, non la sua rinuncia. Lo specifico delle donne è la continuità della specie, non un raschiamento per la carriera. Il cristianesimo questo esalta. L’aborto è un atto medico, non una realizzazione. È sala operatoria, sangue, un’anima che se ne va. Ho sentito una ginecologa chiedere a una paziente in un consultorio durante un’ecografia: “Questo è il cuore. Che vuole fare?”. L’autodeterminazione non è un traguardo, ma la terribile scelta di una fine senza inizio.
C’è dell’altro. O ha dimostrato a Bologna Marco Lisei di Fratelli d’Italia, che ha repentinamente organizzato nella sua città la proiezione contestata dalle femministe del film Unplanned del 2019, il quale racconta la storia vera di Abby Johnson. Abby è una giovane che, diventata volontaria di una delle più grandi catene statunitensi di cliniche abortiste, durante l’intervento di una donna vede chiaramente il bambino, perfettamente formato, che si contorce convulsamente cercando di sfuggire alla cannula che cerca risucchiarlo. La ragazza sconvolta decide di licenziarsi, ma subisce ricattati e minacce, mentre emergono traffici e irregolarità. “Bisogna fare corretta e completa informazione per una vera tutela delle donne”, ha affermato il consigliere di Fdi, respingendo i cori delle paladine della 194. In Texas lo Stato repubblicano ha da poco promulgato una legge fortemente restrittiva che limita l’interruzione della gravidanza a sei settimane, anche in caso di stupro e incesto, e la Corte Suprema non è intervenuta, suscitando le reazioni del presidente Joe Biden e dei democratici. Ma il lato oscuro degli Stati Uniti sono anche gli scandali delle strutture abortiste su traffici di feti e soldi facili. Sull’aborto non si può fare strumentalizzazione e la voce non può essere solo una.

Aggiornato il 17 settembre 2021 alle ore 13:31