Gli errori logici e giuridici dei filosofi pro-pass anti-Agamben

“La nostra epoca è così scientifica che la scienza dice “a proposito di qualcosa”, ma non dice “qualcosa”: così Nikolaj Berdjaev ha giustamente sintetizzato uno dei drammi della cultura occidentale attuale, dimostrando come l’elusione della dimensione essenziale della realtà si traduca spesso in un vaniloquio autoreferenziale, quale è quello tipico della scienza contemporanea. In questo medesimo senso sembra muoversi l’appello di alcuni filosofi, pubblicato su Il Fatto Quotidiano dello scorso 15 ottobre 2021, a favore del green pass e contro le critiche che Giorgio Agamben ha mosso a tale strumento biopolitico. I suddetti 100 filosofi ritengono:

1) che la filosofia debba rispettare i risultati scientifici;

2) che è improprio sostenere che si versi in un’epoca di eccezionalità, trovandoci invece in una emergenza sanitaria che non ha nulla a che fare con altre forme di emergenza;

3) che non è vero che siamo innanzi ad un modello di controllo statale che richiama l’esperienza sovietica;

4) che il green pass non introduce nessuna discriminazione come non la introduce la patente di guida;

5) che non vi è nessuna repressione della libertà individuale.

Alla luce di tutte queste considerazioni, delle riflessioni si impongono inevitabilmente, non tanto a difesa della persona del professor Agamben, che per la sua esperienza e preparazione potrà e saprà senza dubbio difendersi meglio di chiunque possa provare in tale direzione, ma a difesa della verità di cui egli è stato coraggiosamente foriero in questi mesi di pandemia del ruolo critico della filosofia. Le obiezioni mosse dai suddetti 100 filosofi appaiono afflitte da gravi e grossolani errori logico-giuridici. In primo luogo: il problema dei rapporti tra scienza e filosofia non è una mera questione di rispetto, ma di fondatezza, poiché la filosofia – come insegnava Norberto Bobbio – pone la domanda ulteriore che la scienza non è abituata a porsi e non immagina. La vera filosofia, dunque, è quella che si interroga anche dinnanzi alla formale autorevolezza del dato scientifico, soprattutto se questo dato non solo non è assodato – e nella vicenda del covid vi sono tanti dati non assodati (la durata del vaccino, l’origine del virus, gli effetti di lungo periodo) –, ma se esso comporta inevitabili profili di carattere morale in quanto è un dato che – volenti o nolenti – incide sull’essere umano e sui suoi diritti.

Non a caso si dovrebbe ricordare la preziosa lezione filosofica di Vladimir Soloviev per il quale “le verità matematiche hanno un significato universale, ma riescono indifferenti dal punto di vista morale”. A ciò si aggiunga che una scienza che pretende obbedienza fideistica – come in questi mesi si è avuto di constatare – tradisce la sua dimensione epistemologica, per cui solo l’intervento della filosofia può evitare una simile catastrofe gnoseologica, per esempio ricordando il paradigma falsificazionista a cui la comunità scientifica dovrebbe attenersi, poiché, come ha insegnato un premio Nobel per la fisica quale è stato Richard Feynman “un’altra caratteristica della scienza è che insegna il valore del pensiero razionale e l’importanza della libertà di pensiero, come pure la necessità di dubitare, di non dare per scontata alcuna verità. Gli esperti che vi guidano possono sbagliare”.

In secondo luogo: sebbene senza dubbio nell’ambito di una libertà di pensiero a tutti assicurata sia contestabile la ricostruzione di Agamben secondo la quale ci ritroviamo in uno Stato di eccezion, nonostante egli sia il più insigne studioso della materia, e sebbene si possa direttamente compulsare il maggior teorico dello Stato di eccezione, cioè Carl Schmitt, per vincere ogni dubbio, occorre evidenziare la manifesta illogicità del ragionamento dei suddetti filosofi sul punto. Ritenendo, infatti, essi che ci si trova dinnanzi ad una emergenza sanitaria che non ha precedenti rispetto alle pregresse emergenze, ammettono implicitamente la dimensione eccezionale in cui attualmente si versa: implicano cioè proprio quello Stato di eccezione da cui intendono divincolarsi; in buona sostanza affermano ciò che negano e negano ciò che affermano; e il tutto senza rendersi conto della violazione del principio di non contraddizione in cui sono ingenuamente caduti.

In terzo luogo: non occorre certo una elaborata fantasia visionaria per rendersi conto che provvedimenti inediti come il green pass – dall’evidente matrice bio-politica – possono essere ritenuti analoghi a quelli adottati in regimi come quello sovietico e ciò non alla luce di vertiginose costruzioni teoretiche altamente filosofiche, ma in base alla spicciola ricognizione storica che striscia umilmente ventre a terra nelle cronache dei testimoni dell’epoca. In questo senso sarebbe sufficiente leggere le memorie di Andrej Sacharov, di Aleksandr Solženicyn, di Roy Medvedev, di Petr Grigorenko, di Vaclav Belohradsky, di Sergej Averincev, di Vladimir Bukovskij, di Iosif Brodskij, di Ivan Solonevic, di Waldemar Gurian, e di tanti altri dissidenti che riportano come l’introduzione dei passaporti interni in URSS abbia costituito una delle più gravi e dirette violazioni dei diritti umani per decenni negati in quel sistema totalitario. Si pensi, tra i molteplici esempi, alla testimonianza di Boris Souvarine che così ha avuto modo di scrivere: “In febbraio viene istituito il libretto di lavoro obbligatorio, sul modello del libretto militare; contiene la biografia sommaria del portatore, lo stato di servizio con le punizioni, le ammende, i motivi di licenziamento, eccetera, allo scopo di reprimere l’indisciplina e le evasioni

Nel dicembre di questo ultimo anno del Piano, egli instaura allora una misura poliziesca che, per ampiezza e rigore, supera di molto quelle vigenti sotto lo zarismo: l’obbligo del passaporto interno per tutta la popolazione cittadina e per una parte della popolazione rurale intorno alle grandi città. Nessuno potrà spostarsi, né risiedere per ventiquattr’ore fuori del proprio domicilio, senza il visto della milizia annessa alla Gpu. Durante il trimestre in cui viene introdotta la passaportizzazione, Stalin proibisce matrimoni, divorzi, adozioni e traslochi, in modo da impedire le frodi; si degna tuttavia di ammettere i decessi e di tollerare le nascite. Che siano di diritto divino o di origine popolare, tutti i dittatori e tutte le dittature presentano considerevoli analogie nei loro metodi e nella loro ragion d’essere”.

In quarto luogo: come si è già avuto modo di precisare in una precedente occasione, ritenere che il green pass sia inequivocabilmente misura di garanzia della libertà tanto da poter essere paragonato alla patente di guida significa trascurare indebitamente le differenti realtà giuridiche chiamate in causa, e ciò per diverse ragioni.

1) La patente di guida, infatti, è una tipologia di “certificazione” che comporta la verifica di determinate abilità tecniche che devono essere possedute dal titolare non incidendo strettamente sulla persona fisica del titolare medesimo.

2) Non esiste un diritto costituzionalmente sancito alla patente.

3) Anche in caso di guida senza patente, al netto di tutte le eventuali sanzioni civili, penali e amministrative, i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti (lavoro, associazione, culto, insegnamento, istruzione, circolazione ecc.) del trasgressore non vengono meno. Tutt’al più sono temporaneamente compressi, ma sicuramente non soppressi come invece si rischia tramite l’introduzione del green pass per coloro che non sono vaccinati che, infatti, rischiano di perdere il posto di lavoro.

In quinto luogo: vi è repressione della libertà individuale nel momento in cui non vi è riconoscimento e tutela della responsabilità dei singoli e delle istituzioni. L’introduzione dell’obbligo vaccinale di fatto tramite il green pass, infatti, sottrae le istituzioni alla eventuale responsabilità che su di esse graverebbe qualora l’obbligo vaccinale fosse di diritto, scardinando l’endiadi (che proprio i filosofi dovrebbero conoscere meglio di chiunque altro) tra libertà e responsabilità, così da dover essere scontato che dove non c’è responsabilità non c’è autentica libertà e dove non c’è libertà non può esserci responsabilità. Fu Immanuel Kant, del resto, a chiarire una volta per tutte che “senza quella libertà nel suo ultimo e genuino significato, che è la sola pratica a priori, non è possibile nessuna legge morale e nessuna imputazione in base ad essa”.

Proprio la lesione della libertà, dunque, è l’effetto principale dell’introduzione del green pass e desta stupore che una così ricca e folta comunità di filosofi non sia pervenuta ad una così evidente constatazione. In conclusione, i gravi errori di grammatica del pensiero filosofico e soprattutto giuridico in cui si sono accidentalmente imbattuti i 100 avventati critici di Agamben, dunque, richiamano alla mente per un verso le notazioni malinconiche di Friedrich Nietzsche allorquando scriveva “in quali condizioni innaturali, artificiali e in ogni caso indegne deve venire a trovarsi, in un’epoca che soffre della cultura generale, la più verace di tutte le scienze, la sincera e nuda dea Filosofia!”, e per altro verso le riflessioni di Hugo von Hofmannsthal per il quale “la filosofia è il giudice di un’epoca; brutto segno quando ne è invece l’espressione”.

Aggiornato il 18 ottobre 2021 alle ore 11:27