Un nove maggio in Russia

Era soltanto un viaggio. All’inizio conteneva un inizio e una fine, Mosca-Volgograd, ma dopo si diffondeva nella steppa come nello spazio oceanico, e mancava di orientamento e di termine. Mi ponevo accanto al finestrino, guardavo, terra, terriccio, erbetta a ciuffetti, e un vuoto asciutto, il niente. Dove ero non sapevo, quando sarei giunto, non sapevo, sapevo dove ero intenzionato a giungere ma adesso non mantenevo orientamento. La Russia mi accoglieva nella sua vastità. Io non parlavo la lingua locale. I russi non parlavano lingue europee. Passavano il te, qualche segno come tra sordomuti usciva, ma poi la steppa, la steppa perenne, chi sa dove sarei finito, sparito, italiano inghiottito, e così sia. Ventiquattro ore, se ben ricordo, e tornò la consistenza abitativa, tutto in regola, infine, Volgograd, la città che ebbe nome Stalingrado, la città dell’eroismo nazionale, la città-patria ma anche la città del Volga.

Stalin, il Volga, per la mia generazione nel tempo della giovinezza, nomi fantastici, Stalin, il Volga. Non è possibile oggi far comprendere che significava Stalin. La religione politica aveva sostituito la religione religiosa e i condottieri avevano sostituito i santi e persino Dio. Se è vero, ed è vero, che gran parte dell’umanità ha bisogno del padre, ebbene il padre esisteva e Stalin lo era massimamente. Hitler, Mussolini erano capi, Stalin un capo-padre, sorridente, popolano, quasi contadino, baffuto come un bevitore di birra che si asciuga con le mani, addirittura con qualche bambino in braccio. Nessun atteggiamento imperioso, nessuna oratoria strabuzza-occhi, agita-braccia, minaccia-mondo, cordiale, scorrevole, eppure aveva salvato il suo popolo, aveva disintegrato il fascio-nazismo, e consentito libertà e giustizia alle genti (così credevamo).

Poi la disillusione sismica. E tuttavia la memoria persiste, come memoria, al punto che in un mio libro ne scrivo necessariamente (La memoria dei ricordi: Mio padre Stalin). Dunque, nella città della vittoria, nella città del Volga. Albergo, mattino, televisore, colori, suoni. Una furia esce dallo schermo, invade la stanza, mi diluvia, mi sommerge, sembra che entità corporee mi avvolgano. Un getto di vitalità festosa, gioiosa ma di una gioia seria, austera. È il nove maggio, dodici, tredici anni passati, ricorrenza della Vittoria, un intero popolo, una nazione totale, il vento, l’aria, le case la celebrano.

Non il Natale, non la Pasqua, celebratissimi dagli Ortodossi, rasentano il giorno della Vittoria. Perché? Perché in Russia esiste ancora il popolo. Ci sarà poca borghesia, ci sarà piccola borghesia. C’è il popolo, ancora il popolo, quasi contadino, quasi campagnolo, legato ai preti, ai monaci, alla tradizione nazionale, e al capo. Se invece di teorizzare in astratto si frequentassero i popoli si coglierebbe come di solito vi è coerenza tra società e sistema politico. Dove scarseggia la borghesia vive un difficilissimo un sistema europeo (argomento da vagliare peculiarmente).

Le immagini vengono da Mosca, la “parata” del Cremlino. Il Cremlino! Uno dei luoghi essenziali dell’esperienza umana. Visto nella penombra notturna regge San Pietro e il Piazzale di Pechino davanti alla Città Proibita. La potenza radicata, conficcata nel suolo, un che di rustico, non raffinato, nella muraglia merlata esterna, non levigature, di notte sembra di stare mille e mille anni passati, barbari, guerrieri, Lenin, Lenin, Lenin, ancora c’è, incastonato, Stalin è un semplice volto, ma spicca, sorride nel marmo, ancora, ai bordi del Cremlino. C’era il sole a Mosca, allora, irradia, splende, il presidente è quello odierno, piccolo, occhi di lupo vigile, armi, carri, eserciti, aerei sonori, sfreccianti.

Scendo nelle strade, anche nelle piazze a Volgograd, fiori, festa, un signore anziano con delle insegne di guerra, rispettatissimo. Mi rendo conto, come un osservatore partecipante antropologo, che tutti, dai ragazzini agli adulti, uomini, donne “sentono” la celebrazione, un atto devoto, felice e tragico. Non c’è luogo senza festosità tragica, memoria dei morti, glorificazione della vittoria. Poi visitando resti di edifici distrutti a segno della guerra. Non dimenticare. Un memoriale mestissimo, a luci tenue. La “guerra patriottica” con data, è impressa ovunque. Insegna della propria storia, e soprattutto che esiste il popolo unito.

Da tenere in conto estremo. Non è il caso di oltrepassare un cenno, ma Russia, Cina, musulmani hanno ancora il “popolo”, con gli aspetti regressivi e possenti dei popoli. Noi abbiamo ceti, classi, gruppi, rarissimamente una volontà coinvolgente. Forse è il prezzo della libertà, ma occorre anche il valore dell’unità. La patria, la nazione danno unità. Ma come avere una patria se ancora ci dissociamo nella memoria spaccata della guerra e nella mancanza di sovranità? Ecco la differenza: Russia e Cina hanno popoli che convergono in uno scopo, dico le rispettive popolazioni, volontariamente o costrittivamente. Noi siamo divisi all’interno. È venuto il momento di rifondare la nazione italiana. E la nazione europea.

L’Europa deve tornare a se stessa, non proseguire una decadenza dovuta alla sconfitta della Seconda guerra mondiale. La nostra ulteriore decadenza potrebbe suscitare la Terza guerra mondiale. Al dunque: gli Stati Uniti potrebbero avere interesse alla guerra con la Russia (e con la Cina?), noi, assolutamente, no. E però gli Stati Uniti fanno di tutto per causare avversione Russia-Europa, per abbattere la Russia a nostro mezzo. Ma a che scopo rovinare rovinandoci? Allo scopo di favorire gli Stati Uniti che temono un accordo Russia-Europa? E a noi che ne verrebbe? Non sottostare alla Russia, ma non combattere la Russia. La Russia è civiltà europea. Russia ed Europa occidentale sono la cultura suprema del mondo e si innestano in reciproco ausilio. Lo stiamo sperimentando. Ci accorgiamo, in campo economico, che taluni Paesi europei non reggono privi della Russia, gli Stati Uniti non possono impedirci di commerciare con Russia e Cina, se non vi è sostituzione. Invece di stringere il rapporto tra europei ed europei e Stati Uniti lo sconquassiamo. Ci roviniamo.

Spingiamo massimamente la Russia nell’area Indo-Pacifico, il quale con le materie prime russe e l’abilità commerciale cinese (e indiana) conquisterebbe il mondo. Allora, sbagliano tutto gli Stati Uniti? Per niente. Sciaguratamente hanno quale ultima residua possibilità di mantenere il primato della guerra e stanno agendo di conseguenza. Vogliono, fanno, provocano la guerra, giocando la mossa ucraina, fornendole armi, la mossa europea, aizzandoci economicamente contro la Russia. Gli effetti sono catastrofici, per gli ucraini e per noi.

Ma gli Stati Uniti evitano che Russia ed europei si riannodino, gli Stati Uniti tentano una guerra intraeuropea, se loro ne restassero fuori sarebbe un capo d’opera politico. Inoltre, la guerra coprirebbe la crisi economica che al cospetto della guerra sarebbe un male digeribile. Ma vi sono dei rischi poliformi e degli echi dissonanti: che la guerra divenga totale; che l’Europa comprende di essere messa in gioco e molta popolazione si sottragga all’essere gettata in guerra per garantire agli Stati Uniti un dominio inesercitabile, impossibile; che ci rendiamo conto di una desolatissima verità: gli Stati Uniti hanno terrore di perdere il primato se dura la pace.

Che dobbiamo fare noi europei se gli Stati Uniti sono certi che soltanto la guerra ci fornisce la possibilità di non essere dominati da Russia-Cina?

Non accettare questa convinzione? Staccarci dagli Stati Uniti? Non esporci davanti agli Stati Uniti? Cercare di convivere con Cina-Russia? E gli Stati Uniti consentirebbero? Essere avvinti agli Strati Uniti in nome dei valori democratici? Nessuna di queste vie è rasserenante. Opportunissimo è non dare per inevitabile la guerra. Se crediamo che la convivenza reca la nostra sconfitta abbiamo già perduto. Rappresenteremmo sistemi sociali incapaci. Perché darci perdenti? La guerra non è segno di potenza, è segno che senza guerra perderemmo.

Era il nove maggio di anni passati, camminavo per Volgograd, gente con i fiori, poi sul fiume gigantesco, grigio il cielo, uccelli bestioni dai nidi enormi. Poter vivere in pace, una pace attiva, non la quiete. Il russo che guidava l’imbarcazione a ogni getto di amo tirava un pescione corpaccioso che si torceva disperato. Io a ogni getto di amo ritiravo l’amo. Bene così. Una mano la penetravo nell’acqua, dividendola, sentivo lo scorrere del Volga nel mio palmo, così, una carezza a tempo perso, come in sogno. Tempo che fu.

Aggiornato il 10 maggio 2022 alle ore 12:32