Il figlicidio di Elena è il sabba della maternità

mercoledì 15 giugno 2022


Uno scricciolo di cinque anni che mangiava il budino mentre guardava i cartoni dal telefonino della mamma intenta a stirare. Era da poco tornata dall’asilo Elena Del Pozzo, la bimba di Tremestieri etneo nel catanese uccisa barbaramente dalla madre, Martina Patti, 23 anni, che ha confessato dopo aver inscenato un falso rapimento: “L’hanno portata via tre uomini incappucciati e armati”, gridava ai carabinieri. Poi, nella notte, è crollata e ha confessato il figlicidio: “L’ho uccisa io, non ero in me, ho pianto tanto”. Un coltello da cucina, tre o cinque fendenti sul quel corpicino ignaro, nascosto in cinque sacchi da cucina uno dentro l’altro e scaricato in un campo vicino casa, dove le forze dell’ordine hanno fatto la macabra scoperta.

Non è il primo caso di mamme che uccidono i figli. Le scienze psicologiche spiegano che vi è un rapporto particolare tra colei che mette al mondo e partorisce un figlio e quella rivoluzione interiore che cancella l’umano e, guidata da spinte nefaste, arriva a colpire il frutto di sé, la prosecuzione, il proprio corpo nell’altro. Per svariati meccanismi: il ricatto, la punizione, il masochismo, la delirante scelta di cancellare la vita nella vita.

È un misfatto perfino antico. L’infanticidio risale alle culture greche ed egiziane, esercitato dal padre che deteneva la patria potestà, spesso un rito legato a pregiudizi o diritti di sangue fino alle credenze dell’Africa e dell’Amazzonia e alle sette sataniche. Come spiega nella preziosa analisi Sara Fariello nel suo Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post patriarcato” (Mimesis Editore). Punito con la pena capitale fino a che nel Novecento la psicologia ha provato a spiegare l’istinto omicida della madre che uccidendo il figlio uccide se stessa.

A Castiglione delle Stiviere, l’ospedale psichiatrico giudiziario più grande d’Italia, sono internate per sempre queste “mamme killer”. Se ne stanno lì, sulle sedie rosse di plastica a rimuginare il proprio dolore. Dal 1996 a oggi sono passate 94 “mamme assassine”. La giornalista del Tg1 Adriana Pannitteri nel 2006 ha scritto un libro, “Madri assassine. Un diario da Castiglione delle Stiviere” (Gaffi Editore), che è un documento straziante e importante, perché indagando le loro storie ha cercato di capire se sono donne malvage o non comprese. Come pare il caso di Martina Patti, che aveva avuto Elena a 18 anni, poi si era separata, il papà con qualche precedente penale si era rifatto una vita, la nuova compagna, i nonni che cercavano di vedere la nipotina, la mamma che poneva ostacoli. Oggi tutti piangono disperati. La nonna ammette qualche stranezza, “a volte era manesca, dovevamo pregare per vedere la nipotina”. Insomma, il copione noto. Però la cronaca non basta. Che cosa possiamo e dobbiamo fare?

Intanto cosa non dobbiamo fare. Cedere all’istinto sanguinario trascinatore, che dopo queste mattanze infantili vorrebbe far dilagare l’odio e la tortura, per cui tutte quelle frasi da social allo sbando inneggianti alla violenza come colpa vanno cancellate. Non sappiamo se sono solo energie, o se per caso qualche mano occulta si può celare, per cui bastano la pietà e la misericordia sacre per questo, perché distruggono il processo a catena del male. Lo Stato di diritto è l’unica misura valida.

Tuttavia, non si può neppure reagire col solo buonismo. Possiamo discernere e possiamo limitare le occasioni. Si tratta di mettere in relazione condizioni corrispondenti a componenti sociali e politiche. Il divorzio non è una passeggiata, è stato una conquista politica di una parte nel 1975, ma come l’aborto e come tutto il resto delle libertà inerenti alla coppia e alla famiglia vanno guidate. Strettamente guidate con la consapevolezza ferma e unita che in quel contesto possono cadere uomini, donne e soprattutto figli. La generalizzazione maschile del padre-padrone e maschio omicida è apparente. Mi batto da anni contro questo. È un’illusione.

Un divorzio è un lutto, spesso un cataclisma, una guerra tra coniugi e per i figli una perdita sempre. La donna è fragile e nella solitudine delle responsabilità può arrivare ad annullare il figlio come colpa, punizione o addirittura liberazione. Tutta la società, la famiglia, la scuola, l’ambiente, le leggi devono contribuire a colmare un evento drammatico e pericoloso. Se non arriviamo a questa consapevolezza condivisa staremo sempre a piangere figli, donne e famiglie distrutte.

Poi la vita. Oggi la vita ha scarso valore, scarsa sacralità, la maternità è stata svuotata dei suoi significati intrinsechi sia come specifico femminile e sia come unicità della specie. Intorno alla maternità c’è un sabba deformante e spaventoso, nel senso ovviamente di rito dell’ubriacatura. Divorzio, aborto e infine l’omosessualità sono i diretti avversari. Non ho detto che gli uni siano la colpa del fatto, ma se non liberiamo le sofferenze degli oppressi armonizzando le relazioni il conto diventa insostenibile. Per cui se debbo credere nel diritto di tutti di essere sicuri, accettati e al riparo dalla violenza, mi aspetto un ripensamento drastico sulla maternità che appartiene alla donna e solamente della donna nella coppia naturale con il senso di responsabilità necessario, che va al di là del sesso, della propria felicità, realizzazione ed emancipazione.

Il matrimonio non è solo un atto laico, il matrimonio è un sacramento per una cultura vastissima, unica e determinante come il Cristianesimo, che ci distingue e vince sulla barbarie. I figli sono al di sopra di tutto e non si può sconvolgere la natura. Le vittime sono una madre, Martina Patti, e una figlia di 5 anni, Elena Del Pozzo. Dobbiamo restituire alla natura il suo ruolo e rispettare.


di Donatella Papi