Tribunale di Arezzo: no all’indicazione di due mamme sull’atto di nascita

martedì 29 novembre 2022


Sull’atto di nascita può essere indicato soltanto il nome di una madre, ossia di colei che ha partorito il figlio: è quanto di recente ha affermato il Tribunale di Arezzo a conclusione di un giudizio avviato da due donne e avente a oggetto la richiesta di estendere a entrambe lo status di madre dei due gemelli nati in Italia a seguito di fecondazione eterologa eseguita in Spagna.

Il caso, in breve, è il seguente. Le ricorrenti, dopo aver contratto unione civile nel Comune di Anghiari nel 2021, hanno sentito il desiderio di completare la loro unione con un figlio e pertanto si sono rivolte a un centro spagnolo per la fecondazione eterologa, dove una delle due si è sottoposta alla procedura di inseminazione artificiale; per problemi di salute, nel corso della gravidanza, gli embrioni sono stati trasferiti nell’utero della compagna, la quale ha poi partorito i due gemelli presso l’ospedale di Arezzo; al momento dell’iscrizione anagrafica, le due donne hanno chiesto all’ufficiale di stato civile del Comune di Anghiari di poter essere indicate entrambe come madri dei piccoli; il Comune, nel rispetto della legge in materia – e più precisamente dell’articolo 269 del Codice civile e dell’articolo 11 comma 3 del Dpr n. 396 del 2000 ‒ ha risposto che soltanto colei che partorisce il figlio può essere indicata negli atti anagrafici come madre.

Le due donne si sono allora rivolte a un avvocato e hanno presentato ricorso al competente Tribunale di Arezzo per ottenere la doppia iscrizione, al fine di tutelare, come affermato dalle interessate, “il diritto dei bambini ad avere due genitori”. Il Tribunale di Arezzo ha confermato la correttezza della posizione assunta dal Comune di Anghiari e ha pertanto rigettato il ricorso, affermando che “l’esigenza di tutela dei diritti dei minori, allo stato della legislazione vigente, non può legittimare il tribunale a sostituire le proprie valutazioni con quelle spettanti esclusivamente al legislatore”. Si tratta di un provvedimento pienamente condivisibile, in quanto coerente con il sistema normativo e rispettoso delle leggi in materia.

A tal proposito, per comprendere meglio le ragioni per cui la domanda delle ricorrenti è stata respinta, giova ricordare che la vicenda in esame trae origine dal ricorso di una delle due donne alla fecondazione eterologa, una pratica vietata in Italia dalla Legge n. 40 del 2004. Secondo l’articolo 4 comma 3 della suddetta legge, infatti, “è vietato il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo” e, secondo l’articolo 5, “fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi”. La Corte costituzionale, con riferimento a casi analoghi a quello trattato dal Tribunale di Arezzo, ha affermato che “la legge n. 40 del 2004 nega in modo puntuale e inequivocabile alle coppie omosessuali la fruizione delle tecniche considerate. Ciò, peraltro, in piena sintonia con l’ispirazione di fondo della legge stessa” (sentenza n. 221 del 2021). Detta ispirazione, come chiarisce la stessa Corte costituzionale, consiste nel considerare la fecondazione assistita quale “rimedio all’infertilità o sterilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimovibile: escludendo chiaramente, con ciò, che la Pma possa rappresentare una modalità di realizzazione del “desiderio di genitorialità” alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”.

Il fondamentale interrogativo sollevato dalla Consulta – e su cui siamo tutti chiamati a riflettere ‒ è “se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque o se sia invece giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate”. Un quesito che va considerato, ha precisato la Corte, proprio “in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del futuro nato”. Ebbene, la Consulta non ha avuto dubbi nel rispondere che l’uso della tecnica per avere figli incontra dei limiti, uno dei quali è senz’altro il ricorso alla fecondazione assistita da parte di coppie omosessuali.

Nei confronti di queste ultime, tra l’altro, la Corte ha altresì ricordato che “l’articolo 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016 esclude, inoltre, l’applicabilità alle unioni civili tanto delle disposizioni del codice civile sulla filiazione, quanto – come chiarito dalla Corte di cassazione – della disposizione relativa all’adozione speciale del figlio del coniuge, di cui all’articolo 44, comma 1, lettera b), della legge n. 184 del 1983, consentendo la sola adozione in caso di impossibilità di affidamento preadottivo, prevista dalla successiva lettera d)”. La Corte costituzionale ha quindi chiaramente negato l’esistenza del “diritto ad avere un figlio”, affermando che “la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà di divenire genitori non implica che essa possa esplicarsi senza limiti”. Tra l’altro, giova osservare che laddove si ammettesse l’esistenza di un simile diritto, il figlio verrebbe a trovarsi in una posizione di oggetto del diritto.

Anche la Cassazione ha affrontato casi analoghi a quello del Tribunale di Arezzo, giungendo alle medesime conclusioni. Si legge nella sentenza n. 8029 del 2020: “il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la legge n. 40 del 2004, articolo 4, comma 3 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto”. Giova inoltre ricordare quanto affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 7668 del 2020, sulla scia di quanto già osservato dalla Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 221 del 2019): “il solo fatto che un divieto possa essere eluso recandosi all’estero non può costituire una valida ragione per dubitare della sua conformità a Costituzione”.

La vicenda esaminata dal Tribunale di Arezzo è quindi un’ulteriore occasione per riflettere sull’importanza che le leggi siano rispettate, a tutela della pace sociale e degli stessi minori che vengono coinvolti attraverso l’accesso abusivo a pratiche considerate illegali. È senz’altro umanamente comprensibile il desiderio di avere dei figli. Ma questo desiderio non può giustificare la violazione della legge. Il rispetto delle regole è fondamentale per ogni gruppo umano e le violazioni causano inevitabili fratture nella società, minandone la coesione. Maggiore è il grado di importanza delle regole sociali, tanto più la loro violazione produce effetti negativi sulla società. Le norme in materia di procreazione sono senz’altro regole fondamentali e, in quanto tali, richiedono il massimo rispetto dai consociati e il massimo rigore da parte dei giudici nella loro applicazione e interpretazione. È dunque particolarmente degno di nota quanto precisato dal Tribunale di Arezzo, laddove ha affermato che il tribunale – neppure laddove vi sia l’esigenza di tutelare l’interesse dei minori ‒ può essere legittimato a sostituire le proprie valutazioni con quelle spettanti esclusivamente al legislatore. In altri termini, il Tribunale ha messo in evidenza la necessità di rispettare il proprio ruolo e le proprie competenze, contrariamente a quanto invece fatto da una certa “giurisprudenza creativa” che, andando oltre i limiti di potere previsti dalla legge, ha determinato delle situazioni incoerenti con il nostro ordinamento giuridico. È bene allora ricordare che il legislatore ha il compito di produrre le leggi, mentre i giudici hanno il compito di applicarle ai casi concreti.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino


di Daniela Bianchini (*)