Disabilità: tra inabilità e abilità poliedriche

Oltre il politicamente corretto dimora la poliabilità

Cosa si prova a ricevere un trattamento giuridico ad hoc, in ragione di una propria diversità abilistica o bio-funzionale? Cosa si prova a fruire in astratto, e poi in concreto, di un diritto specifico per via di una propria sensibilità cognitiva che richiede tempi diversi, dilatati, non conformi ad un normodotazionismo eteronomo, stabilito dai più in società? Cosa si prova a conquistare il diritto di avere diritti (come avrebbe detto Stefano Rodotà), e vedersi aprire davanti altre opportunità esistenziali, differenti, talvolta altri procedimenti amministrativi o concorsuali? Tutto questo per una politica che giustamente si fa carico dell’esigenza di riequilibrare i punti di partenza, fra le potenzialità e le abilità divergenti, a favore degli individui più fragili.

Quando tutti – anche gli “altri” – saranno ritenuti diversi, non superiori né inferiori ma abilisticamente diversi, la tecnica giuridica della differenziazione trattamentale nelle procedure concorsuali o nelle corsie apposite di transito, e così via, acquisterà una sembianza politica davvero civile. Quando le differenziazioni riequilibrative fra punti di partenza divergenti rientreranno all’interno di una cultura demo-libertaria, che riconosca le diversità come ordinarietà e non come abnormità o pesi sociali, l’espressione “diversamente abile” assumerà una dimensione descrittiva aperta, dinamica, intersezionale; e non soltanto un mezzo linguistico per riempire i vuoti cultuali del linguisticamente corretto.

Diversi da chi: uguali a chi? Il diritto, in quanto tecnica di regolazione delle realtà umane in movimento, nel momento in cui si accinge a riconoscere, tutelare, garantire, riequilibrare situazioni e beni della vita satisfattivi, non può omettere di rispondere alle sopraesposte domande. Il legislatore nel fare le leggi è chiamato ad un costante confronto con i cambiamenti delle realtà, su cui incide la sua opera riformatrice, e con il modo con cui le distinte realtà percepiscono se stesse, periodo per periodo. Per ogni persona disabile c’è una esperienza di vita, unica ed irripetibile, come per tutti; per ogni persona diversamente abile c’è quindi una risposta diversa a ciascuna delle anzidette domande.

La storia ha spesso trascurato il valore delle peculiarità cognitive di un’esistenza “diversa”, circa le abilità psicologiche e somatiche, rispetto alle abilità delle maggioranze. Il presente, superando la storia nel momento in cui tenta di riscriverla, ci sta consegnando un diritto oggettivo che soggettivizza le esigenze, ad immagine e somiglianza degli utenti, tenendo finalmente in debito conto la personalità come universo polimorfo, a sensibilità e abilità plurime. Sulle meno ruvide caverne platoniche dell’oggi, il diritto ha l’arduo compito – sociale ed antropologico – di non farsi mai proiettore di modelli conformisti ed esclusivi, imperanti in quanto escludenti. Il diritto ha anzi il compito positivo di farsi interprete e garante delle diversità nei bisogni, all’insegna dell’eguaglianza fra cittadini, tutti tesi alla felicità, ciascuno secondo la propria essenza.

In tal modo il diritto sarà da un lato un fenomeno d’interpretazione della socialità, che si muove sulle gambe degli individui, e dall’altro lato sarà esso stesso oggetto d’interpretazione, nella quotidiana pratica applicativa. Il fine è quello di garantire una risposta personalizzata alle domande (altrettanto) personali, e concrete, di ogni soggetto. Nella pluralistica relatività delle condizioni e dei bisogni, gli Stati di diritto riconoscono gli esseri umani come eguali davanti alla legge. Così infatti avviene nella Repubblica italiana, ai sensi del primo comma dell’articolo 3 della Costituzione del 1948, il quale ha sancito ed ancor sancisce – nel suo divenire problematico evolutivo – che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. In virtù di questa uguaglianza personologica e liberale, l’individuo non viene assorbito entro gli apriorismi dei modelli neo-assolutisti, basati su abilismi unidirezionali ed imperanti, su modelli astratti di uomo forte, come troppo spesso è avvenuto nei regimi dittatoriali, fascisti o sovietici che fossero.

Ogni individuo, cittadino o comunque fruitore di tutele istituzionali, in quanto essere umano, ha diritto a che gli enti pubblici su più livelli territoriali soppesino i peculiari bisogni di cui è portatore, con conseguenti risposte specifiche, ragionevolmente diverse nella misura in cui riescano a vestire i panni di ogni individualità. Uno fra i tanti profili di diversità è quello della differenziabilità per abilità, con le conseguenti esigenze satisfattive che vi conseguono nella vita personale e di relazione, lavorativa e ricreativa, sanitaria e urbanistica.

Nell’articolo 3 della Costituzione, il riferimento alle condizioni personali risulta riferibile alla sempre aperta questione delle disabilità, e più in generale all’universo delle diversità per abilità differenziabili. Nell’eguale diritto di ogni cittadino disabile a soddisfare i propri bisogni individuali, come singolo nonché nelle formazioni sociali ove si esprime e si realizza la personalità, le istituzioni hanno il dovere di non lasciare irragionevolmente indietro le abilità e le potenzialità di nessuno. Le comunità hanno un senso se riescono a farsi a misura di tutti, nessuno escluso: il bene comune è il bene di ciascuno, nell’insieme degli spazi in comune e delle relazioni intersoggettive, che possono riguardare tutti. Relativizzando e sterilizzando ulteriormente il senso concettuale dell’abilità, e della disabilità quale altra faccia della stessa medaglia rispetto alla prima, potrebbe affermarsi che ogni persona può risultare abile, in alcune attività della vita, disabile in altre.

Aggiornato il 01 dicembre 2022 alle ore 11:11