In ricordo della caduta del Muro di Berlino

venerdì 2 dicembre 2022


Mi recai a Berlino, per la ricorrenza ventennale della caduta del Muro. Ero tra gli invitati alla “Berliner Mauer Konferenz” dedicata ai cambiamenti del mondo giovanile nel dopo ’89. L’evento era promosso da un gruppo di accademici, in stile eterodosso, come giusto, perché una parte dei partecipanti era formata da esperti di tutto il mondo (io in qualità di giornalista esperto in geopolitica), mentre il 50 per cento dei partecipanti erano cittadini comuni liberi di partecipare e intervenire, previa un’iscrizione sul sito della Bmk.

Quando sono arrivato nel centro congressi, affittato per la ricorrenza, c’era gente di ogni nazione e di ogni opinione, ma tutto procedeva bene, grazie a un efficiente servizio di traduzione e alla tradizionale organizzazione teutonica. L’incontro prevedeva due soli obblighi: a) ogni intervento poteva durare dieci minuti al massimo; b) dopo ciascun discorso era fatto obbligo all’uditorio di osservare cinque minuti di meditazione silenziosa… E stavano tutti zitti per davvero.

Quando entrai nella sala conferenze dello splendido hotel di Alexanderstrasse, sede del convegno, era in corso la pausa meditativa. Parte dei presenti era in posizione za-zen, con le ginocchia piegate sulla placida moquette blu. Altre persone, più compassate e in età, erano reclinate sul tavolino posto a lato della poltroncina, con le mani sulle tempie e gli occhi chiusi. Alcuni – in piedi o prostrati al suolo – ringraziavano Dio per la miracolosa dissoluzione dell’Impero del male, come fecero gli ebrei dopo la caduta delle mura di Gerico. Tra i presenti ho riconosciuto Lech Walesa, Tony Blair e altri volti noti, ma la maggior parte dei convenuti era formata da persone sconosciute. C’erano dei giornalisti e alcune troupe radiotelevisive, ma nessun italiano.

L’organizzazione della konferenz è esiziale, molto diversa dalla logica cheopiana cui siamo abituati nelle nostre città. Una ragazza sorridente raccoglie su un computer i nomi e i dati dei relatori. Non è obbligatorio rilasciare l’abstract e nemmeno il titolo dell’intervento. Sul palco un grande schermo fornisce il nome di chi sta parlando e il titolo del tema da lui trattato, oppure l’indicazione “please, silence”, con l’icona di una clessidra. Finita la pausa, un campanello squilla, lo schermo riporta il nome del prossimo oratore e –se è stato fornito – il contenuto delle sue parole.

Ci siamo seduti e abbiamo seguito lo svolgersi dei lavori. Io, dopo essermi registrato, ero iscritto a parlare nel pomeriggio, dopo il lunch break. Quando venne il mio turno, non sapevo più cosa dire. Molti oratori esperti –professori, giornalisti, oppure frequentatori di pub dove la gente ha ancora il coraggio di dire ciò che pensa – esponevano le loro argomentazioni con ordine e decoro, ma mancavano dell’inventiva che invece prorompeva, a gran voce, dagli interventi dei signor Nessuno, i quali rivendicavano il diritto di considerarsi protagonisti di quella storica giornata. Erano loro, gli architetti e insieme le viventi ruspe della demolizione. Apparteneva a loro anche la tristezza per un mondo di pace e benevolenza, che nel 1989 sembrava quasi pronto a venire alla luce e che invece è abortito.

Ho individuato l’argomentazione migliore poco prima del mio turno. Ne ho parlato con un amico, incontrato nella grande platea che ci accoglieva. Lui ha assentito senza aggiungere altro, allora sono andato all’ingresso, da una delle segretarie. Le ho chiesto se ci fosse ancora tempo per assegnare un titolo al mio intervento. Lei ha risposto sì, sbattendo palpebre e ciglia su due ammirevoli occhi azzurri. Ho dettato: “1989-2009, due Muri a confronto”. Ho annotato alcuni appunti su un foglio e sono salito sul palco. Ero libero di parlare. E ho scelto di partire dalle esperienze personali.

Nel 1984 ho dovuto abbandonare gli studi universitari, perché i miei non avevano più la possibilità di pagarmi gli studi, in seguito a una crisi finanziaria. Fui costretto a diventare adulto in pochi mesi, mentre penzolavo da un lavoro all’altro: in fabbrica, in un’agenzia, in un ufficio. Mi capitò di lavorare due mesi senza percepire nemmeno uno spicciolo, nell’infernale calura estiva. Poi le cose migliorarono, trovai un impiego che mi dava la possibilità di studiare e nell’estate del 1989 mi laureai. Per premio, andai in vacanza con la mia fidanzata in Jugoslavia, dove trovai una strana atmosfera febbrile. Ricordo un giovane ingegnere di Mostar, al quale avevamo dato un passaggio in auto. Parlava malissimo dei “ruski”, e non si riferiva soltanto ai russi che affollavano le mura di Dubrovnik o le spiagge di Budva e Kotor. Si riferiva ai serbi, che occupavano la sua terra. Ho ricordato ai convenuti gli scarni supermercati della Bosnia e ho rievocato la curiosità della gente per la mia Austin Maestro, un’auto inglese dalle forme sinuose come il lungomare di Brighton, dotata di uno scintillante “computer di bordo”, anche se si trattava di un modello popolare. Ho cercato di descrivere le Zastava degli jugoslavi, derivate dalle nostre Fiat di 15 anni prima e ho dipinto un quadro di Belgrado, con i carri armati della Seconda guerra mondiale, esposti come statue equestri nel parco principale, tra alberi, aiuole e bambini, per ammonire tutte le generazioni ribelli.

Di questo ho parlato a Berlino: com’era l’Europa in quegli anni, come eravamo vestiti, la musica che ascoltavamo. Ho ricordato una mia conversazione notturna con un ex ministro di Gorbaciov. Ho individuato i limiti di ogni grande evento: confondere l’idea con la realtà. Ho poi esposto la cifra del Nuovo Muro che correva attraverso il mondo nel 2009, più lungo di una Muraglia cinese, più alto di una Torre di Babele. Ho parlato delle armi che scintillano ovunque. Ho sfiorato l’argomento dell’Afghanistan, una guerra in cui tutti i contendenti erano d’accordo nel mantenere un conflitto permanente, in modo che non ci fossero vincitori. Ho affondato le parole sulla stessa Europa, dove l’interscambio tra Germania e Russia cresceva a vista d’occhio, mentre il resto d’Europa stava a guardare. Anche quello è un Muro che non si vede eppure c’è, perché siamo figli dei simboli e delle finzioni, non siamo più figli di uomini e donne, e delle loro azioni.

Ho parlato della situazione italiana, descrivendo la mia esperienza nella stampa, nei giornali e nei siti dove navighiamo ogni giorno. Ho alzato critiche ai giornalisti mainstream, che devono la vita al veleno mortale col quale scrivono. Siamo veterani di una guerra nella quale l’avversario perde ma subito dopo si ripropone sotto nuova forma. Ho ricordato un convegno di giovani universitari al quale sono intervenuto come relatore, la scorsa estate. Ho parlato della voglia di fare, il desiderio di agire, la passione per la positività: “Dare nuovi spazi alle idee e più forza all’intelligenza”. Ho posto l’accento sulla sintesi tra materia e spirito, tra mercato e politica, tra individuo e Stato. Solo la libertà è irredimibile. Solo l’indipendenza spirituale di ognuno ci renderà davvero liberi. Solo la mitezza ci renderà forti. Eppure, tutto ciò è impossibile. Oggi come ieri, a Berlino come a Roma.

Purtroppo, alla fine del mio intervento ho commesso due errori. Il primo è passato sotto silenzio: avevo infatti alluso al fatto che ai giovani d’oggi non freghi nulla della caduta del Muro. L’indifferenza dell’auditorio ha testimoniato a sufficienza la veridicità della mia supposizione. Il secondo errore, invece, ha provocato un disastro epocale per la Berliner Mauer Konferenz. Mi sono scappate queste parole: Berlusconi, Sarkozy e Merkel. Ho citato la frase di un membro del Greater London Council (Glc), dopo che aveva assistito a un concerto dei Sex Pistols: “Mi sono sentito sporco per quasi 48 ore”. Ho dichiarato che i benpensanti del 2009 direbbero le stesse parole di quel membro del Glc, se fossero costretti ad assistere a un comizio di un qualsiasi leader politico con il quale loro non sono d’accordo. Ho aggiunto che la stessa cosa può valere anche per un musicista, un prete, un professore, un medico o un impiegato sgradito. Ho detto che ciò valeva per Silvio Berlusconi come per Gordon Brown, perché entrambi sono identici, nella percezione che ogni europeo ha del suo avversario politico.

È stato un errore. Quando ho finito di parlare, tutti erano in piedi e si stavano accapigliando. Altro che “please, silence”. Gorbaciov scuoteva il capo sconsolato. Un gruppo di tardo gauchiste francesi senza capire niente mi additava gridando “Les berluskitaliens sont arrivés”. Un gruppo di lepenisti belgi urlava “stop à l’eurosocialisme”, indicando il mio volto. Due ragazze si tiravano per i capelli, poi qualcuno ha fatto esplodere degli schiaffi e a quel punto gran parte dei presenti è andata via, mentre i poliziotti scortavano i vip. Sono andato via di nascosto, senza nemmeno salutare il mio amico berlinese. La segretaria dagli occhi blu mi guardava con aria apocalittica.

Questo evento non è mai avvenuto, ma provate comunque a fare un convegno basato sui silenzi meditativi: è cosa utile e buona. Evitate però di parlare di certi argomenti, se volete che l’evento abbia successo. Siate pragmatici, sognate il possibile. L’impossibile fatelo, invece di predicarlo, e quanto al Muro abbattetelo ogni giorno, partendo da voi stessi.

Ps: il testo ripropone, riscrive e aggiorna un mio articolo, pubblicato su Il Secolo XIX, nel novembre 2009.


di Paolo Della Sala