Reati colposi e processo mediatico

Quale è il copione ideale per sceneggiare un processo mediatico con i fiocchi, avvincente, appassionante, infinito quanto le annate delle migliori serie televisive? Non ci sono dubbi: un processo per reati colposi. Eppure, la logica suggerirebbe, di primo acchito, l’esatto contrario. Più intenso è il crimine – verrebbe da pensare – cioè più esplicita, spudorata, violenta è la manifestazione del male, più intenso e partecipe sarà il coinvolgimento dello spettatore. E invece, vale il contrario. Cerchiamo di capire perché, dopo aver messo in chiaro cosa siano questi “reati colposi”.

Se io uccido il mio rivale in affari, per diventare più ricco, commetto un reato doloso: voglio e programmo la morte di un uomo per i miei biechi e loschi interessi. Omicidio volontario. Se corro in macchina in città ad una velocità superiore a quella consentita, finendo per investire un pedone ed uccidendolo, è ben chiaro che non ho mai voluto uccidere quella persona, mi dispererò per il resto dei miei giorni per averlo fatto, e tuttavia sono responsabile della sua morte. Omicidio colposo. Mi hanno infatti insegnato, nel darmi la patente, le regole prudenziali che devo rispettare nella circolazione stradale, proprio per evitare simili tragedie. Ecco la mia colpa: aver adottato un comportamento consapevolmente rischioso e violativo delle regole. Ora, questi due così diversi comportamenti illeciti avranno causato almeno lo stesso dolore nei familiari delle vittime, ed anzi maggiore nel reato colposo, giacché in questo caso l’omicidio è senza movente, il che rende inestinguibile il dolore di chi, come infatti si suole dire, “non può farsene una ragione”. Ed allora come sarà possibile far accettare ai parenti di quelle vittime, ed ai partecipi spettatori di quella tragedia, che la sanzione per il reato colposo sarà – ovviamente e giustissimamente – di entità e grado esattamente inverso al loro dolore? E già qui avete capito come il copione per il processo mediatico sia molto più intrigante e succulento che per un banale omicidio volontario: si racconta di un dolore inestinguibile, che tanto certamente quanto inevitabilmente rimarrà “deluso” nella sua umana aspettativa di punizione.

Ma non basta. Perché esiste una particolare categoria di reati colposi, che è proprio quella che più di ogni altra assurge voluttuosamente ai vari palcoscenici mediatici, affascinando e coinvolgendo protagonisti, spettatori e commentatori delle relative scene processuali. Si chiamano “reati omissivi impropri”. In poche parole, la tua condotta colposa in questi casi non consiste nell’aver imprudentemente e consapevolmente infranto una regola prudenziale (guida urbana oltre i limiti di velocità): troppo facile. La tua colpa qui consiste nell’aver causato la morte di una o più persone avendo omesso di consumare un comportamento che, secondo chi ti accusa, avevi il dovere di attuare. Qui il copione si complica, e l’intrigo toglie il fiato. Altro che la banale storia di un pazzo suprematista che entra in un supermercato con il mitra e stermina venti persone. Troppo facile, la storia quella è. Qui i copioni diventano infiniti, e sono imparagonabilmente più intriganti. Se il medico avesse fatto per tempo una tac, mio figlio, forse, si sarebbe salvato; se i pubblici amministratori avessero avvertito i cittadini del pericolo dopo quel primo sciame sismico, le vittime del terremoto, forse, si sarebbero salvate; se i tecnici della manutenzione avessero fatto in modo più completo i controlli dovuti, l’aereo, forse, non sarebbe precipitato. Il giudice, in questi processi per reati omissivi impropri, deve esprimere il proprio giudizio sull’imputato – se colpevole o non colpevole per quelle morti – svolgendo quello che nel gergo tecnico si chiama “giudizio controfattuale”, e sentite quale succulenta trama quel giudizio rappresenta per il vorace processo mediatico.

Prima, il giudice deve stabilire quali fossero esattamente i doveri dell’imputato che egli avrebbe omesso di adempiere, e già qui è tanta roba; poi, deve compiere un doppio salto carpiato. Deve mentalmente ricostruire cosa sarebbe invece accaduto se egli – l’imputato – avesse adempiuto al proprio compito. Se da questo esercizio di natura puramente logica ed ipotetica, cioè in partenza necessariamente privo di alcun possibile riscontro fattualmente certo, ottengo il risultato che le vittime si sarebbero salvate, condannerò l’imputato; altrimenti, anche solo in presenza di un dubbio sulla ricostruzione logica della catena causale, dovrò assolverlo. Quindi, nemmeno basterà provare con certezza (e vallo a spiegare alle vittime) che l’imputato non fece il proprio dovere; ma, per condannarlo, occorrerà provare altresì, come è ovvio e giusto che sia, che se invece l’avesse fatto le vittime si sarebbero certamente salvate.

Sono questi i processi penali più difficili, più complessi, dove la conoscenza accurata dei fatti e delle problematiche tecniche e scientifiche è indispensabile per formulare giudizi; sono questi i processi dove il lavoro, l’autonomia, l’indipendenza anche emotiva del giudice meriterebbero, sempre, il più rigoroso rispetto, e nei quali il senso di responsabilità dei mezzi di informazione (ciao core, direbbe D’Agostino) dovrebbe esprimersi nelle forme più ferme ed intransigenti. E sono invece proprio questi i processi che si celebrano come se quella drammatica partita si svolgesse in uno stadio, nel quale quel dolore delle vittime – sacrosanto ed inestinguibile – viene cinicamente agitato come bandiere nelle curve. C’è una bella indagine per “reati omissivi impropri”? C’è un succulento “giudizio controfattuale” che il giudice è chiamato a svolgere? Compriamoci i popcorn, e che lo spettacolo abbia inizio.

(*) Presidente dell’Unione delle camere penali italiane

Aggiornato il 10 marzo 2023 alle ore 10:17