Carlo Levi: fedele alla natura

È opportuno, anzi necessario, rievocare e riesaminare la vita intellettuale nel momento più intenso del nostro e non soltanto del nostro passato. Dico gli anni Sessanta-Settanta del XX secolo. Tutto quel che poi accadde fomentò in quegli anni: l’industrialismo, il consumismo, la crisi del comunismo europeo e lo sboccio di un diverso comunismo, quello cinese, che cominciava a cogliere la sconfitta del collettivismo e gareggiava con il capitalismo occidentale ma con istituzioni in forma autoritarie, perfino totalitarie, fenomeno che dovrebbe essere ulteriormente approfondito, l’affrancamento o l’inizio di un tentativo di affrancamento dal dominio coloniale, l’esplosione produttiva del continente asiatico oltre che demografico, la certezza degli Stati Uniti di poter guidare il pianeta, dunque la globalizzazione di parte occidentale. Si potrebbero notare altre situazioni che poi si svolgeranno per giungere al presente. In specie nel campo dei “costumi”, la sessualità “libera”. In tutto questo ribollio un uomo, uno scrittore italiano invece restava legato al mondo, alla civiltà contadina, e la coglieva non esclusivamente in Italia. Non era un terzomondista, semplicemente un appassionato della vita contadina, dei personaggi, dei popoli ancora stretti alla terra, ai campi, alla coltivazione, addirittura alle sembianze fisiche dei contadini. Senza edulcorazioni. Essendo anche o specialmente pittore le raffigurazione della vita e dei volti campagnoli lo attraevano. Quest’uomo è, fu Carlo Levi.

Carlo Levi viveva in un magnifico edificio di Villa Borghese, l’abitazione più che altro era il suo studio e nello studio Levi radunava centinaia e centinaia di quadri, giacché egli non era, come detto, soltanto uno scrittore bensì pittore. La pittura di Levi, immediata, figurativa, forti colori, paesaggi e, soprattutto ritratti. Non vi era personalità nel mondo culturale del tempo che Levi non raffigurasse. Ma dipingeva pure contadini, soggetti che lo interessavano, la terra, gli alberi, il mondo agreste. Una volta nel suo studio mi fece vedere un quadro che ritraeva un giovanotto con gli occhi azzurri di una lucentezza che oltrepassava la tela, spiritata, da brillo, capii e non capii, poi “sentii”, Eugenio Montale di anni passati. Ho presente un quadro che raffigurava Anna Magnani, in risalto, come scolpita, capelli nerissimi, serpentari, volto pallido e vibrante. Non aveva gran mercato Levi e accumulava quadri nella vasta abitazione. Credo che patisse alquanto questa condizione, tenuto conto che il suo amico più frequentato o almeno che io frequentavo insieme a lui, era Renato Guttuso, che di mercato ne aveva a fiumana. Levi era personalità in situazione incerta: aveva avuto uno stabile successo con Cristo si è fermato a Eboli, meno con gli altri testi, Il futuro ha un cuore antico, L’ultima notte dei tigli, sicché pur essendo nome accertato vedeva crescere autori più giovani come Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Goffredo Parise, mentre Alberto Moravia risultava inconfrontabile quale narratore.

Era, dunque, contrastato anche in questa sua maniera espressiva, quella letteraria, sebbene fosse di una gradevolezza, di una serenità, di una colloquialità rara se non unica. Soltanto con Levi venivano fuori discorsi di una certa consistenza culturale. Escludendo Moravia, la gran parte degli artisti non aveva conoscenze organiche, talento, se mai. Cosa che, con molti, rendeva movimentato il dialogo: impuntature, suscettibilità, tensioni, ideologismi. Levi era abbastanza alto, i capelli bianco grigi ricciuti, il naso aquilino e il volto semitico in modo esemplare, portava occhiali trattenuti da una cordicella, con l’età divenne gonfietto, modi signorili, cortesi, una bella voce centellinata, nitida, soave.

Quasi sempre con il panciotto, usciva da un ritratto borghese ottocentesco. Con riguardo al suo modo fisico assistevamo a una divertente situazione: un uomo cercava di imitarlo, e si diceva pittore. Era costui tale Lionello Giorni, sposo di Linuccia Saba, la figlia del poeta Umberto Saba, legata a Carlo Levi. Giorni si era intossicato di spirito imitativo verso Levi, si vestiva al modo di Levi, anch’egli con il panciotto, non si capiva bene se per riconquistare Linuccia Saba o per altri motivi, anch’egli con il sigarino stretto al dito. Fu davvero una curiosità stare con Levi e a distanza scorgere quel parodistico doppio che era Giorni. Negli incontri romani consuetudine vederli entrambi.

Levi ebbe passione da uomo del nord per il sud, confinato per antifascismo, durante quel periodo si addentrò nella vita meridionale, lucana, scrivendo il suo libro più sentito, Cristo si è fermato a Eboli, e si appassionò a tal punto al meridione da divenire successivamente scopritore di talenti di quelle parti, ad esempio Rocco Scotellaro, e partecipe delle lotte sociali dei contadini che egli spesso dipingeva. A tutti gli effetti un illuminista, termine oggi sprecato: intendo per illuminista chi crede alla possibilità di riscatto di ciascun uomo senza porre impedimenti tra un gruppo sociale e un altro, un ceto e un altro, una classe e un’altra, una religione e un’altra. In questo senso come quasi per tutti coloro che vennero considerati comunisti, di comunista in senso proprio in Levi non c’era alcunché. Sarebbe stato la persona meno disposta a una dittatura del proletariato, ad una verità di partito o di parte.

Era di una ragionevolezza serena e di una capacità di dialogo, come accennavo, altrettanto serena, e riguardosa del punto di vista degli altri, di sinistra in quanto antifascista non in quanto comunista. E sarebbe opportuno vagliare questa circostanza, una sinistra di sinistra veramente marxista fu minima. Il Sud gli aveva fatto scoprire l’anima contadina, la terra, le radici e ciò lo rese restio ad accettare una società in cui queste tradizioni sparivano. Interpretò perfino l’Unione Sovietica come un’immensa terra di contadini sulla quale si sovrapponevano l’ideologia comunista e la tecnologia. Nella sua opera non vasta cercò tuttavia di rendere persistente il residuo di civiltà contadina che egli percepiva in estinzione. Levi consente una valutazione della problematica riguardante gli intellettuali e il comunismo, gli scrittori e il comunismo. Me ne ero occupato nel saggio su Nuovi argomenti, pubblicato nel 1963: di comunismo negli scrittori italiani vi era poco o niente, mancava, almeno fino a quegli anni, la classe operaia come protagonista. Presso che tutti gli scrittori ma anche gli intellettuali, i saggisti, i teorici fino agli anni Sessanta erano legati al mondo contadino, gli scrittori prevalentemente.

Moravia teneva scarsissimamente in conto ceti sociali che non fossero della media borghesia e anche nel caso in cui dava rilievo a personaggi “rivoluzionari” li bloccava nella difficoltà morale di uccidere o no, si veda La ciociara o La romana. Elio Vittorini aveva la stessa difficoltà, in “Uomini e no” rende non uomini chi uccide! Pure Carlo Cassola era ancorato al dramma del combattere e uccidere. E mi riferisco a scrittori ritenuti, non tutti, di sinistra! La problematica cristiana del “male” che il marxismo “superava” con la dialettica storica, gli scrittori italiani del tempo non la “superavano”. In Pasolini il mondo industriale proletario era assente o veduto come catastrofe omologante insieme con la borghesia; in Sciascia il proletariato non esisteva, non esisteva in Carlo Emilio Gadda, non esisteva in Guido Piovene. In Levi il proletariato cittadino, il proletariato nel senso marxista del termine non esiste. È una questione di rilievo nella sfera del nostro Paese. Gli scrittori italiani comunisti non erano, se al termine si dà un significato specifico, lo furono perché antifascisti o perché non cattolici o perché addirittura cristiani che ritenevano il comunismo la realizzazione del cristianesimo.

A proposito Moravia scrisse un saggio non banale. Lo furono anche per convenienza. Il che, in ogni caso, comportava effetti dirompenti, giacché questi scrittori, non comunisti, furono vicini al Partito comunista. La vicinanza corruppe, inquinò la cultura del tempo e per generazioni: finirono con il farsi considerare comuniste personalità nient’affatto comuniste e con il dare l’impressione che vi fosse un’egemonia comunista quando di comunista in senso oggettivo vi era ben poco. Ancora oggi si parla del comunismo del tempo come se avessimo a che fare con Karl Marx e con l’Unione Sovietica. Nelle opere letterarie, scrittori comunisti sono pressoché, dicevo, irreperibili. Nelle opere l’egemonia “comunista” non vi fu mai. Carlo Levi, a riguardo, è un caso da studio per questa contorsione di “comunisti non comunisti”. Il che spiega pure, come, “finita” l’Unione Sovietica, il rimescolamento di tanta sinistra con altri soggetti, in nome della libertà e della laicità, fu naturale.

E, soprattutto, attuale Un’identificazione tra edonismo, babilonismo mescolante, modello economico americaneggiante, disumanesimo culturale, sessualità alla rinfusa, qualche accenno di droga leggera, insomma la lotta per la libertà divenuta rilassamento liberatorio. E di confusione ne venne e ne viene tale che oggi si stenta a cogliere perfino che sia “sinistra”, se non forme trasgressive ritenute progressive ed antinazionali ritenute apertura, accoglienza. Peggio ancora, si ritorna al vecchio motivo: sinistra come antifascismo, contro un fascismo inesistente. Laddove sarebbe necessario valutare i sistemi produttivi in epoca di automazione. Nemmeno l’ombra di una analisi. E si dichiara “sinistra”! A non dire che manca pure la preoccupazione per la denaturazione della natura. Dunque, non ci fu mai una egemonia della sinistra marxista, ma un antifascismo che perse legittimazione dopo la fine del fascismo e sopravvive come un fantasma al buio.

Aggiornato il 06 giugno 2023 alle ore 11:14