Quarant’anni senza Pippo Fava

venerdì 5 gennaio 2024


Pippo Fava viene assassinato da Cosa nostra il 5 gennaio 1984. Il giornalista siciliano viene freddato da cinque colpi di pistola esplosi da un gruppo di fuoco del clan mafioso di Nitto Santapaola. Fava si trova davanti all’ingresso del Teatro Stabile di Catania. Deve assistere a una rappresentazione della commedia Pensaci, Giacomino! di Luigi Pirandello in cui recita la nipote. Fava è stato uno dei più appassionati giornalisti che hanno indagato sulla mafia siciliana. Quando viene ucciso ha 58 anni e dirige I Siciliani, un quotidiano che in pochi mesi è diventato noto nell’isola grazie all’inchieste che denunciano i rapporti tra politica, imprenditoria e potere mafioso. Prima della nuova esperienza giornalistica è direttore del Giornale del Sud. Si impegna in diverse inchieste relative alle attività del boss Alfio Ferlito.

Giuseppe Enzo Domenico Fava, detto Pippo nasce a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 15 settembre 1925. Dopo la laurea in giurisprudenza, prende il via la sua carriera di cronista. Diventa giornalista professionista nel 1952. All’attività da giornalista Fava affianca l’amore per il teatro, la narrativa e il cinema. È autore di undici spettacoli teatrali, cinque romanzi e diverse opere di saggistica, quasi tutte di denuncia nei confronti della mafia.  Nel 1980 firma la sceneggiatura di Palermo o Wolfsburg, film basato sul suo romanzo Passione di Michele e diretto dal regista tedesco Werner Schroeter. Il film viene proiettato durante la trentesima edizione del Festival del cinema di Berlino, dove vince l’Orso d’oro insieme a Heartland di Richard Pearce.

Fino al 1955 lavora al Giornale dell’Isola. All’inizio scrive di sport e cinema. Ma è affascinato dalla cronaca nera. Per più di vent’anni lavora a Espresso Sera, un quotidiano pomeridiano con sede a Catania. Firma una serie di interviste ad alcuni boss di Cosa nostra come Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, rappresentanti mafiosi della provincia di Caltanissetta. Lo stile diretto e incisivo procura subito a Fava numerosi fastidi. Diventa il bersaglio di minacce e atti intimidatori. Tre anni prima della morte, nella notte tra il 18 e 19 gennaio 981, esplode una bomba carta davanti alla sede del Giornale del Sud. Una settimana prima dell’omicidio, il 28 dicembre 1983, concede un’intervista a Enzo Biagi, nel corso della trasmissione Film Story, su Rete 4. “Mi rendo conto – dice Fava – che c’è un’enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico e importante”. Quelle parole suonano profetiche e rappresentano un’invettiva ferma e lucida.

Dopo l’omicidio di Fava, le indagini registrano una serie di battute d’arresto, depistaggi e false testimonianze. Nell’estate 1984 Luciano Grasso, un detenuto del carcere di Belluno che aveva fatto parte del Clan Ferlito, dice ai magistrati di volere parlare di alcuni omicidi, tra cui quello di Pippo Fava, ma alla fine decide di non farlo. Poche ore prima dei colloqui, il quotidiano La Sicilia pubblica un articolo che anticipa le sue intenzioni di collaborare con la giustizia. Nel dicembre dello stesso anno Domenico Lo Faro, un detenuto del carcere di Piazza Lanza (Catania), scrive in una lettera indirizzata alla fidanzata di essere stato l’autore dell’omicidio, ma la sua testimonianza viene giudicata poco attendibile. L’anno dopo Francesco Vanaria, un criminale catanese del carcere di Torino, dice ai magistrati che il mandante dell’omicidio di Fava è il boss Marcello D’Agata, uno dei fedelissimi di Santapaola, ma le sue parole sono considerate poco attendibili. Nel 1989 il collaboratore di giustizia Giuseppe Pellegriti, legato al clan di Adrano (Catania), confessa di avere dato a un suo collaboratore l’incarico di uccidere Fava. Anche in anche in questo caso le dichiarazioni si rivelarono infondate. Nel 1993, grazie alle testimonianze fornite ai magistrati dal collaboratore di giustizia Claudio Severino Samperi, prende il via l’operazione definita “Orsa Maggiore”, che dispone 156 mandati di cattura contro persone affiliate al clan di Santapaola per associazione a delinquere di stampo mafioso e per alcuni omicidi, tra cui quello di Fava.

Il processo inizia nel 1994 e si conclude nel 2003, quando la Corte di Cassazione conferma la condanna all’ergastolo di Nitto Santapaola e suo nipote Aldo Ercolano, ritenuti rispettivamente mandante e uno degli esecutori dell’omicidio. Nel 2002 i figli di Giuseppe Fava, Elena e Claudio (giornalista, scrittore, sceneggiatore e già parlamentare), danno vita alla Fondazione Giuseppe Fava, per onorare la memoria del padre e promuovere la cultura antimafiosa. Nel 2018, all’attività giornalistica di Fava è stato dedicato il film Prima che la notte diretto da Daniele Vicari e interpretato da Fabrizio Gifuni, Selene Caramazza e Aurora Quattrocchi. “Sono trascorsi quarant’anni dal vile assassinio per mano mafiosa di Giuseppe Fava, giornalista che ha messo la sua passione civile al servizio della gente e della Sicilia, impegnato nella battaglia per liberarla dal giogo della criminalità e dalla rete di collusioni che consente di perpetuarlo”. Lo sottolinea oggi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “La mafia – prosegue il capo dello Stato – lo uccise per le sue denunce, per la capacità di scuotere le coscienze, come fece con tanti che, con coraggio, si ribellarono al dominio della violenza e della sopraffazione e dei quali è doveroso fare memoria. Fava ha fatto del giornalismo uno strumento di irrinunciabile libertà. L’indipendenza dell’informazione e la salvaguardia del suo pluralismo – conclude – sono condizione e strumento della libertà di tutti, pietra angolare di una società sana e di una democrazia viva. Un impegno e un sacrificio a cui la Repubblica rende omaggio”, conclude Mattarella.


di Mino Tebaldi