Corruzione: un male antico, difficile da debellare

Transparency International ha classificato l’Italia tra i Paesi con un grado di corruzione molto elevato

È stato da poco presentato il Report Cpi 2023, che contiene l’Indice di percezione della corruzione, elaborato annualmente da Transparency International, che la definisce come “l’abuso di pubblici uffici per il guadagno privato”. Detto indice classifica i Paesi in base al livello di corruzione percepita nel settore pubblico, attraverso l’impiego di 13 strumenti di analisi e di sondaggi rivolti a esperti provenienti dal mondo del business. Il punteggio finale è determinato in base ad una scala che va da 0 (alto livello di corruzione percepita) a 100 (basso livello di corruzione percepita). Il Cpi 2023, come si legge in una nota della citata organizzazione, ha analizzato come i diversi Paesi hanno risposto alla corruzione nel tempo, esaminando progressi e fallimenti non solo nell’ultimo anno ma nell’ultimo decennio e oltre. L’analisi si è concentrata specificamente su come l’indebolimento dei sistemi giudiziari contribuisca alla mancanza di responsabilità da parte dei funzionari pubblici, consentendo così alla corruzione di prosperare. Tema centrale dell’Indice 2023 è stato “corruzione e ingiustizia”. Secondo il Rule of Law Index, il mondo sta sperimentando un declino nel funzionamento dei sistemi giudiziari. I Paesi con i punteggi più bassi in questo indice hanno un punteggio molto basso anche nel Cpi, evidenziando una chiara connessione tra accesso alla giustizia e corruzione.

Per quanto riguarda l’Italia, essa ha confermato il punteggio degli ultimi tre anni (56) e si è collocata al 42° posto nella classifica globale dei 180 Paesi oggetto della misurazione. In tale classifica è preceduta non solo dalla Danimarca, dalla Finlandia, dalla Nuova Zelanda e dalla Norvegia che, a notevole distanza, occupano le prime posizioni, ma anche dalla maggior parte degli Stati europei (Paesi Bassi al 79° posto, Germania e Lussemburgo al 77°, Irlanda ed Estonia al 76°, Belgio al 73°, Islanda, Austria, Francia e Gran Bretagna al 71°) nonché da altre nazioni come Stati Uniti d’America (69° posto), Taiwan (67°), e Cile (66°). Chiudono la classifica, al 13° posto, a pari merito, il Sudan del Sud, la Siria e il Venezuela, e all’ultimo, 11°, la Somalia. Nella classifica dell’Europa occidentale, il punteggio medio è di 65 su 100 e il Cpi 2023 conferma il nostro Paese al 17° posto tra i 27 membri dell’Unione Europea.

Alla luce dei dati sopra riportati, è innegabile come in Italia la corruzione rappresenti un fenomeno molto diffuso, che non soltanto crea ingiustizia, ma danneggia pesantemente anche la vita economica del Paese. Anche se stimare il costo che la corruzione ha è senza dubbio un’impresa ardua essendo del resto un reato a cifra nera, si ipotizza tuttavia che il peggioramento di un punto dell’indice di percezione della corruzione riduca la produttività del 4 per cento rispetto al Prodotto interno lordo, compromette le decisioni politiche e la qualità degli investimenti. Si tratta, peraltro, di un fenomeno che ha radici antiche. Ha attraversato i secoli, modificandosi, adattandosi, assumendo le forme degli usi e dei costumi di ogni epoca, mutando ma persistendo. Nel mondo antico, essa assumeva piuttosto la connotazione di malgoverno, volto a far prevalere l’interesse particolare su quello generale e al non rispetto delle leggi. Ha scritto ad esempio Plutarco che, nel 324 avanti Cristo, Demostene fu coinvolto nello scandalo dell’oro di Arpalo, dal nome del satrapo e tesoriere di Alessandro Magno, al quale sottrasse metà del patrimonio. Presso i Romani, poi, è famosa la vicenda del propretore Gaio Licinio Verre, accusato di concussione per avere manovrato a suo piacimento il sistema di aggiudicazione degli appalti, per il quale Cicerone, nel 70 avanti Cristo, chiese una condanna che potesse essere da monito per i potenti e gettasse un segnale contro la corruzione, stigmatizzandone ogni sua forma. A sua volta, Svetonio racconta che pure su Giulio Cesare si addensò il sospetto di essersi procurato illecitamente grandi quantità di denaro. Il sospetto, come rilevato da Bertolt Brecht ne Gli affari del signor Giulio Cesare, dove si legge “gli abiti dei governatori erano fatti solo di tasche”, ha investito anche uomini e rivali dello stesso Cesare, e persino Crasso e Pompeo, ai quali Montesquieu ha appuntato l’accusa di malversazione, per aver introdotto “l’uso di corrompere il popolo con i soldi”.

Per i tempi successivi vale la pena ricordare che nella Spagna del Siglo de Oro (Secolo d’Oro) destò scalpore il malcostume di Francisco de Sandoval y Rojas, duca di Lerma, ministro di re Filippo III. Questo raccolse una fortuna personale immensa grazie a malversazioni, frodi contabili, nepotismo e con le speculazioni urbanistiche. La corruzione, che gli aprì le porte della ricchezza, caratterizzò a Parigi l’attività di Richelieu, che Montesquieu definì “il peggiore cittadino di Francia”, nonché quella dell’altro cardinale Giulio Mazzarino. Di lui, un memorialista dell’epoca scrisse: “Era così attaccato al denaro che si macchiò di bassezze indegne del suo rango. Vendeva tutto, cariche e benefici, e di tutto faceva commercio”. In Inghilterra, George Villiers, primo duca di Buckingham, fece carriera alla corte di Giacomo I. Il duca accumulò un patrimonio personale enorme approfittando delle proprie responsabilità, mediante la creazione di nuovi tributi e la vendita di franchigie, oltre a rastrellare denaro sottobanco.

Della corruzione morale e materiale ha scritto Alessandro Manzoni nel primo capitolo dei Promessi sposi, dove, narrando della dominazione spagnola a Milano, spiega come premessa di ogni sopruso erano la corruzione dei funzionari e l’inefficacia dell’apparato giudiziario, gravato da una pletora di leggi (“gride”) ridondanti e inapplicabili: “L’impunità era organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smovere”. In Italia e in tempi più ravvicinati, numerose inchieste parlamentari comprovano diversi episodi di corruzione pubblica sin dall’unificazione della Penisola nel 1861, tra i quali lo scandalo della Banca Romana, che ha travolto il Governo Giolitti nel 1892-93, per arrivare sino ai ben noti fenomeni corruttivi dei giorni nostri.

Nel tempo poco è cambiato, se non le forme della concussione e la loro interpretazione, ma non la consistenza e la percezione del fenomeno, il quale continua a essere molto diffuso. Le ragioni di ciò, sulle quali hanno indagato gli studiosi, sociologi, economisti, magistrati, possono essere molteplici anche se appare degno della massima considerazione e decisivo il rilievo di Ludwig von Mises, per il quale: “L’esistenza della corruzione (…) è un fenomeno concomitante e inevitabile dell’interventismo statale” ed è altresì risaputo che ci sono uomini che trattano “lo Stato e i suoi uffici come semplici istituzioni adibite alla distribuzione di prebende” (Max Weber).

All’interventismo, infatti, si collega inevitabilmente l’espansione della burocrazia e l’incremento di provvedimenti legislativi, oltre che della tassazione, le quali cose aprono inevitabilmente la strada al potere di politici e burocrati e alla discrezionalità, sempre più estesa, fino a diventare libero arbitrio, dei funzionari. Essi, è appena il caso di rilevare, operano sovente sulla correttezza formale degli adempimenti e non sui risultati, e godono di ampia discrezionalità nell’interpretazione di norme, leggi e regolamenti oscuri e intricati, nel cui contesto si creano gli spiragli favorevoli per l’infiltrarsi della corruzione. Il concetto di corruzione può essere facilmente esteso alla politica come, a esempio, nel caso in cui, in cambio di favori elettorali, è utilizzato il potere legislativo per far approvare leggi che assicurino vantaggi a un limitato gruppo di individui, o nel diverso caso dell’esercizio del potere per bloccare riforme e provvedimenti che, pur garantendo in ipotesi un aumento del benessere della collettività, possono danneggiare interessi particolari di lobby politiche ed economiche.

A fronte di ciò, la soluzione del problema della corruzione, che appare sempre più istituzionalizzata, è diventata, cioè, norma informale, non può essere individuata nell’adozione di ulteriori misure interventistiche, come invocate dall’opinione pubblica, che finirebbero per incrementare la presenza asfissiante dello Stato, schiacciare l’attività del mercato e fungere da terreno fertile per la corruzione. È necessario, invece, un cambiamento radicale della struttura e dei compiti dello Stato e ridotto l’ambito di interferenza del potere pubblico, soprattutto nella fornitura dei cosiddetti beni collettivi, che sino a oggi hanno rappresentato una sorta di “cavallo di Troia” dell’interventismo economico e legislativo. Il territorio lasciato scoperto dall’inferenza del potere pubblico deve essere occupato dalla cooperazione sociale volontaria, alla quale affidare la soluzione del problema economico e la soddisfazione dei bisogni. Non è una strada facile da percorrere. Anzi, è irta di ostacoli. Ciononostante, è ormai tempo di muoversi versa la risoluzione del problema.

Aggiornato il 05 marzo 2024 alle ore 17:08