L’immensità di Don Backy

venerdì 2 aprile 2021


“Io son sicuro che, per ogni goccia, per ogni goccia che cadrà un nuovo fiore nascerà e su quel fiore una farfalla volerà. Io son sicuro che, in questa grande immensità qualcuno pensa un poco a me, non mi scorderà”. Queste le prime strofe della meravigliosa canzone L’immensità (di Don Backy). Il brano fu firmato anche da altri due autori, Detto e Mogol, in quanto Aldo Caponi (questo il nome all’anagrafe), già cantante di successo, non era ancora iscritto alla Siae. Una canzone partorita dalla sola creatività di Don Backy, in una sera di pioggia a Milano. Era il 1967 e Don, in coppia con Johnny Dorelli, la presentò al Festival di Sanremo classificandosi al nono posto. Avrebbe dovuto partecipare anche l’anno successivo con il brano Canzone, inizialmente proposta ad Ornella Vanoni, la quale però scelse un altro suo brano, Casa bianca, volendola a tutti i costi presentare al Festival. Il regolamento prevedeva che si potesse presentare una sola canzone per autore. Il Clan di Celentano trovò l’escamotage di far presentare, contro la volontà dell’autore, una documentazione in cui si attribuiva la paternità a un prestanome. Questo falso determinò la rottura tra Don Backy e Adriano Celentano con cui aveva stretto non solo un sodalizio lavorativo, ma anche un rapporto amicale intenso.

Don Backy da uomo fiero, orgoglioso e testardo, prende altre strade e va per conto proprio. La folgorazione per la musica arriva molto presto, quando scugnizzo acquisito giocava fra i vicoli di Castellammare di Stabia, la cittadina tra i paesi vesuviani, la Costiera amalfitana e Pecorari, una frazione di Nocera Superiore, in provincia di Salerno. Ma a far scattare la molla dello spettacolo non fu una melodia classica napoletana ma una canzone americana: Rock Around The Clock cantata da Bill Haley. Per il giovane Aldo, nato in Toscana e trasferitosi alle falde del Vesuvio con la famiglia da piccolissimo, gli anni trascorsi in Campania sono stati molto importanti, tanto da essere ispiratori di quel tipico “clima” sentimentale di cui sono permeate alcune sue canzoni.

Legato a Liliana Petralia dal 1964, ne parla come se l’avesse incontrata ieri, tale è l’amore che prova per lei. Insieme hanno un figlio, Emiliano, estraneo al mondo dello spettacolo. Don è ironico, pungente, acuto, sportivo, parlare con lui è come fare uno stage di alta formazione. Ha fatto tante cose nella vita, passando con la stessa passione da impiegato in alcune concerie di pellami a dipingere quadri, dallo scrivere ai libri, alle commedie e alle canzoni. Non si è fatto mancare nemmeno il reality, partecipando a La Talpa. Ha recitato in molti film, dal primo nelle vesti di un monaco, con Totò, in Il monaco di Monza, a Pane e tulipani, diretto da Silvio Soldini, nel ruolo di sé stesso, dove canta la sua Frasi d’amore del 1969. Don Backy è una sorta di Forrest Gump dell’arte, entra ed esce da ruoli diversi, approfondendo la sua fame di conoscenza. Arguto e attento, risponde senza perdere un colpo. Con il suo sapere mi affascina e mi tiene due ore al telefono, intervallate dal pranzo, che rigorosamente è alle 12.

Cantautore, attore, scrittore e poeta: come ti definiresti?

Mamma mia, mi hanno qualificato a mia insaputa. Faccio tutte queste cose non per professione ma per passione e sfida a me stesso. Io sono abituato ad andare oltre, non mi fermo mai a quella prima impressione. Se una cosa mi dà emozione ci devo entrare dentro. Sviscerarla, svuotarla e farla mia nutrendomi di essa, e lo devo fare al massimo delle mie capacità. Sono esperienze che mi fanno crescere, mi attraversano. Come quando ho incrociato la prima volta un fumetto di Hugo Pratt, “Una ballata del mare salato”, sono rimasto talmente colpito, che ho voluto cercare di penetrare i segreti della grafica, cominciando a disegnare una mia storia, guardando proprio i disegni di Pratt. Non lo avevo mai fatto prima di allora e mi è piaciuto talmente tanto, che ho continuato. Sono emozioni davvero belle.

Perché all’improvviso arriva un’emozione e ti travolge?

Difficile definire, o peggio, spiegare un’emozione. Di solito arriva quando meno te lo aspetti e soprattutto senza preavviso. Sono folgorazioni non descrivibili. Stessa cosa mi è successa per la scrittura, per il cinema, per il teatro. Sono una persona estremamente istintiva e passionale.

Nel 1960 la tua prima canzone, La storia di Frankie Ballan, un brano con una ritmica da ballata country, piuttosto inusuale per l’epoca. Come è nata?

Intanto fu una autoproduzione, mi costò la bellezza di cinquantamila lire. Come tutte le mie canzoni nacque da uno spunto reale. L’esigenza di mettere in versi e musica la storia vera occorsa a un mio amico, innamoratosi di una fanciulla, che creò molte situazioni emozionali. Come vedi torna sempre e da questa, nacque la mia prima canzone. Spesso mi dicono: lei ha scritto tante canzoni per i suoi colleghi. Non è vero. Ho scritto solo due canzoni su commissione, diciamo così e sempre per “cause di forza maggiore”: Nuda per Mina e Ho scritto fine, per Mario Tessuto, la quale vendette oltre 150mila copie. La canzone per Tessuto fu un gesto dolce, di simpatia. Stava scadendo il suo contratto con la Cgd e non glielo avrebbero rinnovato, a meno che non avesse portato una canzone mia. Per questo motivo gliela scrissi. Il contratto si rinnovò e, l’anno seguente, Mario fu mandato al festival di Sanremo con Lisa dagli occhi blu, un successo da oltre due milioni di dischi. Era un ragazzo che funzionava, sapeva cantare e le ragazzine erano tutte sue fan. Ma, l’anno successivo, la gestione, invece di continuare su quel genere di canzoni, preferì mandarlo di nuovo a Sanremo in coppia con Orietta Berti, con Tipitipitì. E qui non trovo più le parole per esprimermi in negativo nei confronti di chi lo gestì così maldestramente.

Sei passato da Ho rimasto a Sognando. Come è avvenuto il cambio di registro?

Tra le due canzoni sono intercorsi cinque anni di vita vissuta e pure di crescita. Anche se, Sognando, attinge a immagini del passato che, evidentemente, portavo chiuse in me, ma non ricordavo, salvo poi tornare a galla grazie a un episodio, che mi fece ricordare quelle emozioni rimosse. Quando abitavo a Pecorari, andavo all’asilo in un convento di suore, mia sorella era lì in collegio. Ero ribelle, non stavo volentieri all’asilo. Spesso inforcavo l’uscio del convento e andavo via. Il più delle volte mio padre mi sculacciava e mi riportava a scuola. Attiguo al convento, c’era il manicomio di Materdomini. Avrò avuto al massimo cinque anni, quelle povere persone rinchiuse lì dentro, affacciati alle finestre dalle pesanti sbarre, allungavano le mani attraverso di esse, alcune mi sorridevano, altre avevano sguardi persi nel vuoto, altre urlavano disperate. Io camminavo radente il muro del palazzo di fronte, osservavo pieno di paura ed evidentemente incameravo. Fatto sta che nel 1971, nel mese di agosto, feci un concerto all’ospedale Santa Maria della Pietà, a Roma, dove all’epoca c’era ancora il manicomio a padiglioni.  Ho avuto modo di conoscere il mondo autistico. Non era stato ancora coniato il termine “autismo”. Per definire un ragazzo con questa patologia, qualcuno mi disse che “si è chiuso in se stesso è ha gettato via la chiave”. Quella definizione mi colpì profondamente, tanto che il giorno dopo, mentre tornavo in treno a Forte dei Marmi, cercai di immedesimarmi in quella sensazione. Ispirato dal ritmo incalzante, ripetitivo e ossessivo delle ruote sui binari, scaturirono in me, sia la musica che il testo. Una volta, arrivato al Forte, era nata Sognando fumo.

Cosa si prova quando si scrive un capolavoro di questa portata?

Non avevo certo la sensazione di aver scritto qualcosa di particolare. Quando la facevo ascoltare, alla fine mi dicevano che il brano incuteva paura e nessuno pensava di farmelo incidere. Quando proposi di presentarlo a Sanremo, l’idea non fu presa nemmeno in considerazione, preferendo Bianchi cristalli sereni, una mia canzone dignitosa, ma nessun paragone. Avrei dovuto cantarla con Claudio Villa, che voleva venire con me al festival, ma essendo inviso agli organizzatori della manifestazione, alla Cgd ripiegarono su Gianni Nazzaro, ancora misconosciuto, in attesa di lancio definitivo, che certamente ottenne con quel brano, anche grazie alla sua bella interpretazione. Arrivammo settimi. Ci provai ancora con Sognando fumo, nel 1973, da indipendente, ma anche stavolta mi andò buca e la canzone non fu ammessa.

Qualche anno dopo però il brano fu cantato da Mina, come ne è venuta a conoscenza?

La svolta, se così la vogliamo chiamare, è avvenuta nel 1976. Una sera, mi arriva una telefonata: “Ciao sono Mina, ho visto che hai una canzone per me”. Non disse ho sentito, ma ho visto. Credendo a uno scherzo, risposi: “E io sono Garibaldi”. Aveva da poco inciso L’immensità, ma non avevamo avuto mai nessun contatto personale. Ero felicissimo. Le dissi che avrei guardato tra le mie canzoni nuove, che tenevo in un raccoglitore con la copertina di bachelite amaranto, ma, tra tutte quelle che scorsi, non mi parve ci fossero canzoni adatte a lei. Non volevo perdere l’occasione. Mi passò più volte sotto il naso anche Sognando fumo, ma, memore dei giudizi altrui, mi guardai bene dal proporgliela. Così una notte, tornavo da un concerto, in macchina da solo, mentre guidavo, avevo nello stereo una musicassetta dove alloggiavano tutte le canzoni da me preferite, italiane e americane, di fine anni Cinquanta. Quando arrivò la canzone di Umberto Bindi, Non mi dire chi sei, ebbi modo di riflettere sul testo. Non mi dire chi sei/Il nome che hai… In fondo chi era Mina? Era stata sviscerata in mille modi, giornali, tivù, cinema ma nessuno la conosceva nel profondo. Fu così che nacque l’idea di Nuda. Scritta su dei fogliacci (scrivo sempre su carta riciclata), appoggiati al volante, mentre guidavo. Ero in un’altra dimensione, perché tutto scorreva con facilità. A sviscerare geroglifici da codificare, avrei pensato una volta arrivato a casa. Scrissi quindi di getto, una sequenza infinita dello stesso motivo, come nel mio stile di allora, convinto di aver centrato l’obbiettivo. Vado a Milano, nella sua sala di registrazione La Basilica, c’era il fonico. Con la mia chitarra faccio il provino di Nuda e sto per andar via, ma, sulla porta, ci ripenso. Torno indietro e faccio un provino anche di Sognando fumo. Esisteva solo un’incisione del 1974, fatta a mie spese per l’etichetta Love di Detto Mariano. Dopo qualche giorno, Mina mi chiama, dicendomi: “Lo sapevo che avevi un pezzo per me”. Io, pensando a Nuda, le risposi: “Hai visto? È proprio il tuo ritratto, la tua fotografia, ce l’avevo in quel librone e non me la ricordavo”. Quando lei rispose “ohé, ma credi che sia pazza?” capii che alludeva a Sognando fumo. Mi chiese di modificare il titolo chiamandola solo Sognando. E così fu. Incise anche Nuda e addirittura per un errore del suo arrangiatore Pino Presti, che aveva allungato la base di ben tre strofe, con due cambi di tonalità in più. Una sera, mentre ero a Milano, a cena, in compagnia del mio produttore Elio Borroni e di un comune amico, il tassista Enrico Martano, Mina mi raggiunse telefonicamente, mettendomi al corrente del problema. “Se vuoi che la incida, devi scrivermi subito tre nuove strofe e portarmele subito qui alla Basilica”, mi disse, categorica. Dovetti scrivere in fretta e furia le tre strofe, su un tovagliolino di carta, con qualche macchia di sugo, nel ristorante di Mario Arlati, sui Navigli. Tutto questo si trova in Storia di altre Strade… il secondo libro della mia pentalogia. (Edizioni L’Isola che c’è). Corsi a portarle la modifica in sala. Mi sdilinquii dal godimento: scalza, abbassò le luci, bevve un po’. Buona la prima. Emozioni. Andai alla Bussola al suo ultimo concerto. Una serata memorabile: quando cantò Sognando si fermò il mondo. Ero con mia moglie, la raggiunsi in camerino, chiese una sigaretta alla mia consorte, era stanca. Parlammo della scelta di marketing, di aver tenuto nel 33 giri Sognando e non averla mai cantata una volta in tv. Quella canzone segnò anche il suo ritiro dalle scene.

Come vivi oggi la tua vita e la condizione di cantautore, poeta e musicista?

Male purtroppo. Perché siamo i più penalizzati e senza speranza. Non c’è una svolta in questa peste che ci ha colpito. Noi non ricominceremo più. Se non ci fanno fare concerti, la situazione per noi non cambierà. Non riesco a esprimermi e ho ancora tanta passione. Passione che mi hanno tolto alla fine della vita. Non credo in questa storiaccia dei vaccini, ma è una mia idea, non deve influenzare nessuno. È solo quello che penso.

Nel 1981 la tua canzone Importa niente diventa la sigla di Domenica in. Oggi ti avrebbero accusato di aver scritto una canzone sessista, lo sai?

Assolutamente sessista, sì. Ma era la vita che si viveva allora e io non ho mai scritto cose non vere. Ero con Adriano, che voleva incidere un blues e stava suonandolo con la chitarra. Io approfittai per trattare un tema in cui l’operaio maschilista tornava dalla moglie casalinga e magari pretendeva e/o la picchiava. Allora era così. Non c’era tutta questa attenzione ai testi delle canzoni. Io l’ho scritta perché narrava la mentalità dell’epoca. Il brano s’intitola Sabato triste, incisa nel 1962 da Celentano, ma non ebbe molto successo di vendite, proprio perché era troppo presto per inserire un tema sociale in una canzone.

In una intervista ti ho sentito dire che la musica attuale lascerà solo macerie. Ma solitamente dalle macerie si passa alla ricostruzione. Tu la vedi questa realtà nella musica o dopo le macerie ci sarà solo polvere?

Ci sarà solo polvere.

Tornando a una delle tue canzoni più belle, quella con più incisioni nel mondo in assoluto, L’immensità, quali sarebbero le piccole cose per te oggi, dopo una goccia, un fiore e una farfalla che ti riconducono all’immensità?

Posso dire una battuta?

Prego

Don Backy.

E per Aldo Caponi che cos’è l’immensità?

Mia moglie.


di Giò Di Sarno