La lezione di Platone nel “Fedone”

lunedì 13 settembre 2021


Il Fedone è un’opera dialogica in cui Platone, dando la parola a Socrate, in attesa di bere la cicuta che potrebbe definirsi (limitatamente al contesto narrativo), l’elemento intermedio tra il mondo delle cose sensibili e la regione dell’ineffabile, espone la teoria dell’anima. Occorrono, tuttavia, due precisazioni, di cui l’una inerisce l’altra e viceversa. È vero che le argomentazioni di Socrate si focalizzano principalmente sulla psyché, ed è anche vero che egli non manca di evidenziare il dualismo corpo-anima, la funzione del corpo come tomba (sòma-sèma), così come si ammette che le virtutes della saggezza, del coraggio e della temperanza siano gli ingredienti precipui per godere, nell’iperuranio, della contemplatio divinorum.

In secondo luogo, dette formulazioni – pur costituendo il fulcro del Fedone – sconfinano in altri alvei che hanno impegnato Platone nel corso degli anni, sino alla stesura delle Leggi, la sua ultima opera. Dalla gnoseologia alla cosmogonia, dall’etica alla religione, dalla politica alla cosmologia, dalla psicologia alla filosofia, l’evoluzione del pensiero platonico è a un tempo coerente e incongruente, lineare e contraddittorio. Ciononostante, detti alvei sono perfettamente funzionali alla costruzione della teoria dell’anima. Il Fedone è, in tal senso, un esempio lampante. La trattazione è sì costruita dialogicamente, ma leggendola si ha l’impressione di avventurarsi in un racconto (la storia dell’immortalità dell’anima), che si svolge in un’atmosfera drammatica e tenebrosa (l’imminente morte di Socrate), in cui gli scambi dialogici sembrano voler ricordare al lettore che la conversazione tra Fedone ed Echecrate è un riportare in vita le ultime ore di Socrate, del modo in cui le ha vissute e affrontate.

Appare chiaro che il Fedone racchiude due storie: la historia di una morte, appunto quella di Socrate, e la storia di una nascita, quella della metafisica, che afferma la necessità dell’esistenza di un altro mondo, di una realtà ulteriore. Onde ne deriva che la philosophia non fa della morte un determinato oggetto del pensiero, ma la filosofia stessa è meditatio mortis. Socrate stesso asserisce che “quanti si applicano correttamente alla filosofia rischiano di celare agli altri che il loro non è nient’altro che un esercitarsi al morire e all’esser morti”. L’anima del filosofo, in effetti, segue i dettami della ratio e ad essi si attiene, dal momento che il suo fine primo e ultimo è la serenità delle passioni, la qual cosa confluisce ineludibilmente nella contemplatio del verum, nel cui limbo l’anima è finalmente libera dai mali della natura umana.

Emerge, dunque, il divario tra l’uomo comune e il filosofo: l’uno, dedito ai piaceri terreni, è mosso dal desiderio di soddisfare i bisogni del corpo; l’altro, rivolto all’anima, non si lascia abbindolare dalle percezioni sensibili e prosegue il sentiero che conduce alla verità, al mondo intelligibile dove l’essere trova la sua realizzazione più piena e perfetta. Si ha qui la classificazione delle anime, che ne determina la loro disposizione post mortem, mutuata poi da Marsilio Ficino nella Theologia platonica: temperante e intemperante, continente e incontinente, cui vi si aggiunge la distinzione tra due classi di virtù: civili e intellettive. A queste ultime è riservata un’attenzione peculiare, in quanto costituiscono le tappe dell’iter conoscitivo che ha come fine la contemplatio divinorum, il raggiungimento dell’Uno plotiniano, la conquista della saggezza.

Il tutto, a seguito di un progressivo distaccarsi dal corpo, quale ostacolo per l’anima, che scambia l’apparenza per l’essenza e l’impronta della verità per la verità stessa. Essa, dunque, purificandosi dalla materia corporea, può finalmente cogliere il vero – essendo la veritas una kàtharsis – e incamminarsi “verso ciò che è puro, eterno, immortale e immutabile”. In ciò, dopotutto, consiste il compito dei filosofi: liberare l’anima dalle catene (desmoí) del corpo. Si entra, a questo punto, nel vivo del dialogo platonico. S’incontrano e s’intrecciano indissolubilmente due teorie: l’immortalità e la metempsicosi delle anime. Entrambi i ragionamenti, entrambi pronunciati da Socrate (nonostante la misologia), necessitano di prove e dimostrazioni, fermo restando il loro carattere interdipendente.

Vengono esposte tre argomentazioni per provare che l’anima continua a vivere dopo la morte del corpo, che essa sia immortale e quindi anche indistruttibile e incorruttibile. La prima è la teoria dei contrari (o della palingenesi), vale a dire che ogni cosa si ingenera dal suo contrario: “I vivi si generano dai morti, non meno che i morti dai vivi”. Poiché, “se i vivi si generassero dagli altri vivi, ma poi i vivi morissero, quale stratagemma ci vorrebbe per evitare che tutto finisse per distruggersi morendo?”. La seconda prova dell’immortalità dell’anima è data dalla dottrina della reminiscenza (o anamnesi). È nota infatti l’espressione platonica secondo la quale “conoscere è ricordare”. Quindi – come Plotino poi scriverà nelle Enneadi circa l’irrobustimento della potenza della memoria nella conservazione delle cose acquisite con l’intellectus – si nasce con una certa quantità di nozioni innatamente acquisite e nel corso della vita le si conservano. Del resto, “il sapere consiste in questo: una volta rappresa la conoscenza di qualcosa, conservarla e non perderla”. La terza e ultima prova a favore dell’immortalità dell’anima è racchiusa nell’asserzione secondo cui “solo il composto può decomporsi”.

La morte è purificazione in quanto comporta il dissolvimento del corpus e, perciò, lo scioglimento e il distacco dell’anima da esso, che palesa altresì la sua essenza indistruttibile. In senso filosofico, la fuga dal corpo e il viaggio verso l’Ade sono l’emblema del passaggio dal mondo sensibile all’intelligibile, della liberazione dai mali della natura umana e, in definitiva, della superiorità della “terza essenza” – per adoperare una locuzione cara a Marsilio Ficino – rispetto all’organismo corporeo. “Quando la morte si avvicina all’uomo – afferma Socrate – ciò che è mortale in lui muore, mentre ciò che è immortale, dopo aver ceduto il posto alla morte, se ne allontana intatto e incorrotto.” L’anima, allora, potrà finalmente giungere là dove le sarà concesso di essere veramente felice.


di Antonietta Florio