“Il matrimonio di Rosa”: come sposare se stessi

Come si scrive un matrimonio al quadrato? “Se stessi per se stessi”, ci dice la regista spagnola Icíar Bollaín, con il suo divertente film Il matrimonio di Rosa (La boda de Rosa, in sala dal 16 di settembre), in cui la protagonista intende un po’ maldestramente sposarsi con se stessa, facendosi quindi tutte le promesse che, in genere, si replicano in due all’atto della cerimonia nuziale. Per alcune persone speciali, il quotidiano, a lungo andare, si presenta ostile e invivibile, soprattutto se sei doverosa e generosa, come lo è una brava figlia con un padre anziano e capriccioso come Antonio (Ramon Barea), con una sorella assente, Violeta (Nathalie Poza), e un fratello, Armando (Sergi Lopez), fin troppo richiedente, per finire a una figlia Lidia (Paula Usero) che, oltre a due vivaci gemellini, deve gestirsi i suoi fallimenti da quasi-adulta, riversando fiumi di angoscia sulla figura materna. Le persone, a quanto pare, nella vita di tutti i giorni si dividono in due categorie nette: i generosi, che funzionano da veri e propri invasi affettivi in cui si abbeverano gli egoismi di tutti gli altri. Di quelli, cioè, che ne approfittano senza mai nulla restituire in cambio. Compresi la maggior parte dei colleghi e dei datori di lavoro. Capita, come accade negli infortuni sul campo, che a un certo punto il carpentiere stanco precipiti dall’impalcatura e a farsi male sono quelli che stanno sotto, mentre gli passano pigramente tavole e chiodi.

Ma Rosa (Candela Peña), essendo una brava sarta, sa in fondo come si cuce un nuovo mondo tutto suo, fatto di estro, bellezza e creatività e, per di più, ha un nido d’aquila polveroso e abbandonato nel suo paesino natale: il negozio di sartoria di sua madre. Sembrerebbe l’Uovo di Colombo, come accade nel caso di chi abbandona la routine infernale delle metropoli, per riscoprire la quiete impagabile dei percorsi lenti e solenni della vita di campagna. Ma poiché molti costumi da sposa hanno una coda piuttosto lunga, nel caso di Rosa questa caratteristica strutturale coincide metaforicamente con la sua famiglia di parenti più o meno stretti (sempre troppo!), che le fa commettere l’errore di invitare quelli più intimi al suo singolo e singolare matrimonio. L’aspetto interessante, tradotto dalla regista in paradossi e scenette esilaranti, è la coazione a ripetere schemi mentali che ognuno di noi si porta dentro come il carapace di una tartaruga: non è possibile disfarsene, a meno che non si accetti di rimanere nudi agli occhi del mondo. Così è sufficiente non chiedere mai alla propria figlia, sorella e madre “Con Chi” lei intenda sposarsi, per generare situazioni imbarazzanti a cascata, che portano la protagonista a pentirsi amaramente di averli coinvolti.

Non c’è del torbido né si analizzano legami atipici alla Pedro Almodóvar, in questo film di Bollain che, nella sua apparente leggerezza, approfondisce senza minimamente darlo a vedere la consistenza intima dei legami affettivi che permeano un nucleo familiare ristretto e allargato. Costruendo per di più un effetto catarsi per tutti i personaggi che, chi più chi meno, sono assiduamente seduti sulle spalle larghe di Rosa per rendersi meno difficile la vita, utilizzandola come factotum cui, in apparenza, nulla è dovuto. E l’effetto catartico è proprio causato dall’emergere dei rispettivi fallimenti e nel loro riconoscimento: un divorzio che si trascina senza mai compiersi del tutto; un problema di alcoolismo negato e malvissuto; una vedovanza che riga l’anima come un graffito color seppia; un matrimonio che si disperde come fili di nebbia al sorgere del sole in un quotidiano alienato. Ebbene, è nel gesto assurdo di Rosa, posti finalmente dinnanzi a quella sua decisione paradossale e a quell’invito ancora più sconcertante, che i suoi affetti più cari apprendono a riconoscere e confessare le proprie colpe nei confronti di Rosa, minimizzando l’Ego per focalizzare, finalmente, la struttura emotiva dell’Altro da sè.

Rosa non urla mai la sua sofferenza e il suo dispiacere: fugge via e basta. Non vuole né scucire l’orlato affettivo ereditato nascendo, né di converso cucirne uno nuovo su misura imponendolo ai protagonisti. Costruire una nicchia in cui rimanere da soli sposando, per l’appunto se stessi, in un dono di fedeltà incondizionata al proprio diritto di vivere, assomiglia molto al gesto dell’autore dello scandalo che, all’ultimo secondo, decide di tagliare la corda della macina che lo spinge sul fondo, tornando così in superficie alla ricerca di quella luce che, volendo e credendoci, il destino rende gratuitamente disponibile a tutti per la propria redenzione ed espiazione.

Aggiornato il 15 settembre 2021 alle ore 11:18