Giosuè Carducci ovvero l’orgoglio di essere italiano

Personaggi della civiltà

Come nel Medioevo-Umanesimo abbiamo avuto i tre Autori, Dante, Petrarca, Boccaccio, e successivamente Boiardo, Ariosto, Tasso, quindi Foscolo, Manzoni, Leopardi, non con la nettezza associativa di Dante, Petrarca, Boccaccio, più recentemente abbiamo collegato degli scrittori, Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Quasi contemporanei essi hanno somiglianze e dissomiglianze radicali, non sono indegni della poesia italiana del passato e della poesia europea ed universale, anzi, talvolta, con degli elementi sperimentali che ebbero risonanza. Stiamo nel compiuto Risorgimento, l’Unità dell’Italia presso che realizzata, Roma è la Capitale, e l’evocazione di Roma è detonante per un italiano, il papato è alle strette, insorge uno spirito laico, liberale, progressista, scientista, sovente massonico, almeno nei ceti borghesi che si stavano affermando, fa le iniziali apparizioni il Socialismo, anche il cattolicesimo è attento ai ceti poveri, ai lavoratori, in specie ai piccoli produttori, alle formazioni associate. Il popolo vive nella miseria, in gran numero, nell’ignoranza. Ma in qualche modo, duramente, avanziamo.

La Monarchia sabauda è diventata nazionale, comincia l’industrializzazione, ma è ancora l’agricoltura a dominare, sia nella proprietà, sia nel numero dei contadini. Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, lo stesso D’Annunzio, sono immedesimati in queste realtà, tra Natura e modernità, con maggiore ottimismo in Carducci, e maggiore volontà di giustizia in Pascoli, all’interno, in quest’ultimo, di una sconfortatissima visione dell’esistenza. Giosuè Carducci accresce la nostra poesia di una musicalità larga, sonora, sonante, un empito di vigorosa cadenza, scorrente, sempre immerso nella Natura, e in una virile vitalità civile, specie legata all’Italia del passato comunale. Se Leopardi vedeva la Luna, Carducci vede il Sole, non che non abbia coscienza dolente della morte, ma crede, vuole innanzi ad essa e sopra di essa, la vita, e della vita, sopra tutto, l’arte, non arte sensualistica, sensorialistica al modo, lo vedremo, di D’Annunzio, ma un’arte da fabbro, che canti civiltà, bellezza robusta, passioni d’amore, coraggio civile.

Non c’è torbido, distruzione, malattia, perversione, immoralismo, sapore di guerra in Carducci, non immagini raffinate, non concezioni stravaganti, Egli è un forte propugnatore di salute, voglia di vivere in una libera società, partecipando al progresso della medesima. Vi è pure un Carducci più intimo, malinconico, quasi un precursore di Pascoli, ma pure in tal caso mantiene la scorrevole, sonora musicalità che lo distingue, e la spontaneità sorgiva del verso. E mai la negazione della vita. Carducci colma, accresce, fa respirare il bello dell’esistenza, è un poeta salutare. I testi commentati sono del Carducci intimo, sentimentale, sono versi semplici, talvolta rimati secondo la più conservativa modalità, però hanno calore, talvolta fiamma, sempre peso d’animo, e fluiscono, quasi naturalmente, per sgorgante vena. “Pianto Antico” è la celebre composizione che fu scritta per la morte del figlio Dante.

E’ una contrapposizione leopardiana e “classica”, la natura rifiorisce, gli uomini muoiono per sempre. Carducci rammenta il figlioletto che tende la mano al verde melograno dai bei vermigli fiori ristorato dal sole e dalla luce, il figlio, no, “tu fior della mia pianta”, il figlio di Carducci, non rinascerà, è nella terra nera, è nella terra fredda, il sole mai più lo rallegrerà, mai più, l’amore non lo risveglierà, mai più. Semplice, rettilinea, ninna nanna funebre. Meno spontanea, elaborata, attorta, incupita la composizione “Funere mersit acerbo”. Carducci immagina una tristissima visione, il figlioletto che batte la porta del Regno dei Morti dove sta il fratello del Carducci, suicida e dallo stesso nome del figlioletto, Dante, e chiede al fratello di accogliere il bambino. “Jaufre Rudel” è di maggiore ampiezza rispetto ai testi presi in conto. Fu Rudel un poeta provenzale, innamorato, come allora si costumava, di una donna mai conosciuta, Melisenda, Contessa di Tripoli, in Libano.

Prima di morire Rudel vuole incontrare la donna fantasiosamente eletta. La sua nave, di Rudel, si accosta al porto di Tripoli, scende il fido Bertrando, messaggero di Rudel, in cerca della Contessa Melisenda. Alla quale dà la nuova, che è giunto Rudel, che l’amò e la cantò, non veduta, e adesso, morente, in quest’ultima ora vuole incontrarla. Rudel attende, la Contessa giunge. Nel vederla Rudel esprime le sue ultime parole che sono un inno all’amore contro la fugacità e nella fugacità dell’esistenza: “Contessa, che e mai la vita?/È l’ombra di un sogno fuggente. La favola breve è finita./ Il vero immortale è l’amor”... Commossa, Melisenda concede il bacio al poeta morente, tre volte baciandolo... Il sole “irraggia” la bionda chioma di Melisenda china sul poeta. Anche in tale composizione nessuna eccezionalità di immagini, di linguaggio, addirittura una rima cantilenante, eppure c’è sentire effettivo, pienezza emozionale, nessuna superfluità o accorgimento di effetti voluti, vi è il necessario per dire quel che bisognava dire, il primo e l’ultimo saluto dell’amante all’amata. “Presso una Certosa” è tra le ultime composizioni di Carducci, è malato, ha raggiunto il vertice dei riconoscimenti, il Premio Nobel.

Questa breve poesia è un “addio”, e gli sgorga come nelle sue imprese migliori, spontanea, semplice, canora. Sempre la Natura: una foglia si stacca, ed è sembianza di vita che finisce: “par che passi un’anima”, la foglia cade nel ruscello, ruscello che gorgoglia tra i cipressi, fievole. Questo ambito naturalistico di passaggi, di movimento, di suoni, si contrae in un pensiero intimo di morte, muore la foglia muore Lui, e sia, purché il morire non attenui, non spenga la divina Poesia, e la presenza del Poeta fondamentale, Omero, “pria che l’ombra avvolgami”, prima della morte. Al solito, non è tanto l’ideazione che vale in Carducci, bensì la pienezza del sentire, l’onestà del sentire. Carducci carica il verso di un sentire realmente sentito e che si effonde nel lettore, lo colma di sentire. Talvolta somiglia a Giuseppe Verdi, un Giuseppe Verdi meno possente ma “vero” altrettanto.

Giosuè Carducci, nacque in Toscana, presso Lucca, nel 1835, visse consacrandosi alla poesia ed alla critica letteraria, sentimentalmente, a parte il matrimonio e vicende minori, ebbe passione per la giovane scrittrice Annie Vivanti. Docente di letteratura italiana a Bologna, gli succedette Giovanni Pascoli. Premio Nobel nel 1906, mori nel 1907. Repubblicano, anticlericale, cantore del Progresso, monarchico successivamente, alterna malinconia e forza, ed è personalità stimabile e affermativa. Un patriota. Se non sperimentò il linguaggio, Carducci sperimentò il verso, le cadenze, sull’antico per rendersi nuovo.

Aggiornato il 18 ottobre 2021 alle ore 10:44