Visioni. “Il potere del cane”, un estetizzante racconto incompiuto

Una tragica sensualità echeggia nella cadenza ieratica del film Il potere del cane di Jane Campion. La regista neozelandese Premio Oscar riadatta per lo schermo il testo omonimo di Thomas Savage. Un romanzo western pubblicato nel 1967. Il titolo, dal suono enigmatico, fa riferimento alla collina rocciosa su cui appare la forma di un cane dalla mandibola spalancata. D’altro canto, il riferimento più esplicito rimanda al versetto 22.20, contenuto nel libro dei Salmi: “Salva l’anima dalla spada, salva il cuore dal potere del cane”. Il lungometraggio, presentato in anteprima alla 78ª Mostra del cinema di Venezia, dove ottiene il Leone d’argento (il Premio per la migliore regia), è stato distribuito da Netflix sulla propria piattaforma streaming a partire dallo scorso 1º dicembre, dopo un breve passaggio nelle sale statunitensi.

Campion sceglie la sua Nuova Zelanda per ricreare il Montana del 1925. Lunghe distese di terra e paesaggi primordiali. Il film, vincitore di tre Golden Globe (Miglior film drammatico, Miglior regista, Miglior attore non protagonista, Kodi Smit-McPhee) racconta le vicende di Phil (un perturbante Benedict Cumberbatch, dalla scarnificata magrezza) e George Burbanks (un pacioso Jesse Plemons). I due fratelli si occupano di un ranch di famiglia e dello spostamento di mandrie di bovini. Phil, sardonico e rude, è attaccato all’immutabile mondo della vita da cowboy. George, pingue, mansueto e tenero, è aperto all’avvento del moderno e insegue la felicità nella famiglia. Così sposa Rose Gordon (una dolente Kirsten Dunst), una giovane vedova, il cui figlio Peter (un misurato e inquietante Kodi Smit-McPhee) è affascinato dalla dissezione di animali selvatici. Phil, invece, vive nel mito del leggendario Bronco Henry, mentore esemplare.

Quando George porta Rose e Peter nel ranch, il mondo di Phil prima entra in fibrillazione e poi va in frantumi. Così il mandriano, dapprima sbeffeggia e poi accoglie il giovane Peter, eleggendolo a discepolo. Cerca di ricreare, con tutta evidenza, la dinamica amorosa che regnava con Bronco Henry. Il cowboy estremizza i tratti di silenziosa disperazione e di malcelata persecuzione nei confronti di Rose, fino a spingerla all’alcolismo. La donna replica, in questo modo, il comportamento del primo marito, morto suicida. In termini junghiani, Phil teme Rose perché in lei vede incarnata la sua parte femminile. Quella cui non vuole prestare ascolto. Peter, entrando nelle grazie di Phil, è determinato a salvare la madre e sé stesso dall’uomo, attraverso un sottile atteggiamento manipolatorio.

Il ranch è governato da una violenza psicologica sottolineata dalle musiche ossessive di Jonny Greenwood. Come contraltare, emerge chiarissima la fotografia di Ari Wegner, che riesce sfruttare la luce calda della Nuova Zelanda. Jane Campion non ha paura di confrontarsi con l’inconscio. Ma, seppure le angosce che attraversano i personaggi sono rese magnificamente, quel che sconcerta è il mancato approdo al climax narrativo. La risoluzione sfiora i confini del melò, raggelandolo. Il groviglio, infine, non viene districato. Viene, soltanto, reciso. Come una corda “malata”. Le eleganti premesse restano a valle della collina rocciosa. Manca l’ascesa, il coraggio della sconfitta, il terrore della confessione, il coraggio della tragedia. Un fatto è certo: dopo la visione del potere del cane, si ha l’impressione di avere assistito a un appassionato, ma estetizzante, racconto incompiuto.

  

Aggiornato il 14 gennaio 2022 alle ore 20:34