Visioni. “Drive My Car”, la genesi di un film capolavoro

Un meraviglioso film di parole che intreccia letteratura, teatro, cinema e televisione in maniera splendidamente lineare. Drive My Car (Doraibu mai kā) è una pellicola diretta dal giapponese Ryūsuke Hamaguchi, che appena due settimane fa ha vinto l’Oscar come miglior film internazionale (avendo anche la meglio sull’ottimo È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino), il Golden Globe 2022 per il Miglior film in lingua straniera e che al 74º Festival di Cannes nel maggio 2021 ha ottenuto il Premio per la Miglior sceneggiatura (firmata dallo stesso regista con il connazionale Takamasa Oe), ma avrebbe meritato la Palma d’oro.

Il lungometraggio, tratto dall’omonimo racconto del grande scrittore nipponico Haruki Murakami, contenuto nella raccolta Uomini senza donne (edita in Italia da Einaudi, nel 2015) è stato distribuito nel nostro Paese da Tucker Film, a partire dal 23 settembre 2021, ed è visibile su Sky. Così, l’intensa opera metanarrativa di Hamaguchi oltre a Murakami, incrocia anche Samuel Beckett e Anton Čechov attraverso lingue diverse (quella dei segni, il giapponese, l’indonesiano, il tedesco, l’inglese, il cinese, il coreano, il filippino, e da noi il doppiaggio italiano) che vengono integrate dal gesto, dallo sguardo, dal respiro su una ribalta teatrale. Sullo sfondo, oltre la scarna scenografia, uno schermo proietta la traduzione dei vari idiomi.

È la personale messa in scena adottata da Yūsuke Kafuku (il disincantato Hidetoshi Nishijima), un attore e regista teatrale sposato con la bellissima Oto (una sensuale Reika Kirishima), una sceneggiatrice televisiva. La loro relazione è insieme erotica e creativa. La donna, durante l’amplesso, entra come in estasi e racconta delle seducenti storie al marito. Il giorno dopo ogni incontro amoroso, l’uomo incalza la moglie facendole notare le incongruenze o le sviste della narrazione. In seguito, quelle storie diventano apprezzati copioni per il piccolo schermo. Si tratta di mera invenzione o quei racconti nascondono una base realistica? Dopo aver visto il marito in una messa in scena del beckettiano Aspettando Godot, Oto presenta a Yūsuke un suo collaboratore, il giovane attore Kōji Takatsuki (il fascinoso Masaki Okada). Ma un giorno Yūsuke torna a casa prima del solito e trova la moglie avvinghiata al ragazzo. Non c’è spazio per il risentimento. Perché la donna non riesce a superare un’emorragia cerebrale. Così, Yūsuke si trasferisce a Hiroshima per una nuova regia. Lavora all’allestimento del cechoviano Zio Vanja. Mette in piedi una compagnia in cui le attrici e gli attori parlano, ciascuno, la propria lingua. Dopo una serie di provini, sceglie anche Kōji, il rivale in amore, affidandogli, addirittura, il ruolo principale.

Yūsuke decide di alloggiare lontano dal centro. È un modo per coltivare il proprio rito laico: ascolta, a bordo della sua Saab 900 Turbo rossa del 1987, un nastro dove la moglie ha inciso le battute del dramma firmato dall’autore russo. Un tecnica mnemonica che rappresenta anche l’espediente narrativo che lo ricongiunge, idealmente, alla compagna. Per non dimenticare. Per non dimenticarla. Un inno d’amore nei confronti della donna, del teatro e della parola. Per ragioni logistiche, Yūsuke è costretto a fare guidare la propria auto a una giovane autista, Misaki Watari (una dolente Tôko Miura). La loro relazione, quasi filiale, dà l’occasione a entrambi per rielaborare i traumi e i sensi di colpa del passato.

Nel corso di tre emozionati ore, il cineasta 43enne narra la storia di donne e uomini che sopravvivono al dolore della perdita. Un viaggio nella complessità di opposte solitudini. Con un’asciuttezza, una sobrietà e una precisione magistrali. Non ci sono cadute retoriche. Il racconto è scarnificato. Lambisce i sentieri del melodramma, raggelandoli. Hamaguchi filma la genesi di un capolavoro, prediligendo uno stile popolato da lunghi piani sequenza a camera fissa e primissimi piani. Come nei film precedenti, incluso Il gioco del destino e della fantasia (Gūzen to sōzō), Orso d’argento, Gran premio della giuria al 71º Festival di Berlino, è interessato a scandagliare la natura formale e sociale dei rapporti umani in contesti peculiari. I personaggi di Drive My Car abitano palcoscenici diversi: quello teatrale, la sala delle prove, l’abitacolo di una macchina, un appartamento, una stanza d’albergo, uno studio televisivo. La parte iniziale del film, che dura una quarantina di minuti, precede i titoli di testa. Introduce la storia di una rieducazione alla vita. 

Aggiornato il 10 aprile 2022 alle ore 18:22