Cercare di raccogliere in una breve sintesi il fior da fiore del pensiero di Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 – Napoli, 20 novembre 1952) è un’opera temeraria o comunque prevedibilmente suscettibile di apparire presuntuosa, paragonabile a quella dell’angioletto di Sant’Agostino, che voleva raccogliere il mare con una conchiglia, per dimostrare al Santo quale fosse la limitatezza dell’umano intelletto, innanzi all’immensità del mistero della Santissima Trinità, che Agostino voleva comprendere.

Con doverosa consapevolezza e umiltà emulativa dell’angioletto, nella ricorrenza dei 70 anni dalla scomparsa dell’ineguagliato filosofo, storico, politico e letterato del Novecento, ne evochiamo alcune riflessioni, senza alcuna pretesa di esaustività, ma con l’auspicio di suscitare curiosità nel Lettore per ulteriori approfondimenti, attratti dalla perenne freschezza ed incisività del suo pensiero. Pensiero che, avendo una valenza universale, trascende le categorie dello spazio e del tempo, assurgendo alle vette dell’Eterno, che unisce le generazioni di ieri, di oggi e di domani nel culto dei perenni valori del Bello, del Vero, del Buono.

In questo momento storico, innanzi alla piaga di una pandemia mondiale e dell’aggressione russa contro l’Ucraina, anche essa con coinvolgimenti e ricadute a livello globale, appaiono attualissime le riflessioni del filosofo durante il secolo scorso, quando iniziarono a intravedersi i sinistri bagliori del nazismo, perché il totalitarismo nel corso della storia, si ripresenta periodicamente – seppur con forme cangianti – nelle sue proteiformi reincarnazioni.

Nell’opera Storiografia e idealità morale, Croce affermò: “Ebbene conviene dire in questo riguardo che quanto è accaduto o minaccia di accadere ai nostri giorni ,non è niente di diverso sostanzialmente da quel che la storia ci mostra come l’andamento consueto delle società umane, e che non abbiamo il diritto di pretendere noi quella pace e quella felicità che ai nostri antenati non fu concessa, e non abbiamo nessuna buona ragione di tenerci ingiustamente trattati per aver sofferto come essi soffersero. C’ è qualcosa di poco bello in questa implicita richiesta di voler godere il mondo civile da essi col combattere e col sacrificio creato, senza combattere e senza sacrificarci noi per sostenerlo ed accrescerlo, noi umanità oziante e voluttuosamente assisa sopra la terra fecondata dal sangue altrui, e ricca di messi alla cui produzione non abbiamo partecipato e non parteciperemo con il nostro contributo di fatiche e di travagli”.

Nel noto saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, osservava: “Il cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, feconda di conseguenze, così inaspettata ed irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da Lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo. La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che allora era mancata all’umanità… La coscienza morale, all’apparire del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò in modi nuovi, tutt’insieme fervida e fiduciosa col senso del peccato che sempre insidia e col possesso della forza, che sempre gli si oppone e sempre lo vince, umile ed alta, e nell’umiltà ritrovando la sua esaltazione e nel servire il Signore la letizia.

Quanto alla Chiesa cattolica, il laico Croce con passione ardente commentò le accuse rivoltele per la corruttela che vi era penetrata e che spesso si era allargata “perché – scrisse – ogni Istituto reca in sé il pericolo della corruttela, delle parti che usurpano la vita del tutto, dei motivi privati e utilitari che si sostituiscono a quelli morali, e ogni istituto soffre nel fatto queste vicende e di continuo si sforza di sorpassarle e di restituire le condizioni di sanità. Ciò accade altresì – tenne ad evidenziare – seppure in modo meno scandaloso o più meschino, nelle chiese che contro la loro primogenita cattolica, gridandone la corruttela, si levarono nelle varie confessioni evangeliche e protestanti… Un Istituto non muore per i suoi errori accidentali e superficiali, ma solo quando non soddisfa più alcun bisogno, o a misura che scema la quantità e si abbassa la qualità dei bisogni che esso soddisfa. Nel continuo contrasto interiore tra coscienza e leggi esterne, tra immanenza e trascendenza, tra eticità ed utilità, tra libertà ed autorità, tra il celeste ed il terrestre che sono nell’uomo, si è in cammino verso la tranquillità interiore e si riaccende e si alimenta il sentimento cristiano nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che non mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza. E il Dio cristiano è ancora il nostro”.

In una lettera ad Alessandro Casati, scrisse di esser stato colto di sorpresa dallo scoppio improvviso del bombardamento del 4 dicembre 1942, mentre era in procinto di rifugiarsi a Sorrento e assisteva al carico dei bagagli. Croce aveva potuto portare con sé, trasferendosi da Napoli, solo poche migliaia di volumi, una minima parte degli oltre 150mila della sua biblioteca, che non trovò modo di mettere al sicuro, e ciò – disse all’amico – “è la trafittura più dolorosa che io provo. All’età mia, quando si è esaurito o quasi il compito della propria vita, la morte non spaventa, ma la perdita di quel patrimonio letterario colpirebbe non la mia persona, ma un interesse generale”.

Dopo il 25 luglio1943, fu un succedersi incalzante di eventi che scossero la compagine nazionale, nel tragico scenario di una guerra che aveva seminato e continuava a seminare distruzione, morte, miseria, privazioni, in nessun luogo come nella Napoli di Croce.

Fisso è il pensiero alle sorti dell’Italia: il fascismo mi appare già passato, un ciclo chiuso… ma l’Italia è un presente doloroso”, annotò nel suo diario due giorni dopo “dormo poco la notte: mi sta sempre innanzi la rovina dell'Italia. Il tormento, anche psicologico e fisico, non lo abbandonava, ma tornava ripetutamente ad esprimersi.

Così il 15 dicembre 1943 diceva: “Sono stato sveglio per alcune ore, tra le 2 e le 5, sempre fisso nel pensiero che tutto quanto le generazioni italiane avevano da un secolo in qua costruito politicamente, economicamente e moralmente è distrutto, irrimediabilmente. Sopravvivono solo nei nostri cuori le forze ideali con le quali dobbiamo affrontare il difficile avvenire senza più guardare indietro, frenando il rimpianto”.

Un anno dopo, il 12 dicembre 1944, appuntò: “Stanotte mi sono svegliato prima delle quattro… e ho sempre meditato sulle condizioni gravissime e quasi disperate dell’Italia. Per fortuna, quando mi rimetto in piedi e ripiglio il qualsiasi lavoro, l'avvilimento è vinto e quasi dimenticato. Così sperimento in me, quotidianamente, che “l’opera è tutto”. Servire Domino in laetitia, se è possibile, e andare innanzi animosamente”.

La morte non ha mai l’ultima parola, perché se il percorso della vita terrena è limitato – osservava Croce –l ’opera sopravvive sub specie aeternitatis a colui che la ha portata a compimento. Fede nel lavoro, operosità terrena, umiltà e disinteresse sono i motivi ricorrenti nell’etica crociana: “la gloria di Dio – affermò – si attua attraverso la gloria dell’uomo, al quale se viene tolta ogni speranza di natura edonistica, rimane la severa soddisfazione di avere, con la fatica dell’opera sua, ben servito la causa dell’umanità. La fatica propria, cioè il lavoro, e il lavoro è sempre disinteressato ed attinge il suo fine in se stesso e non in altro che da se stesso, perché, quando ciò avviene è chiamato e si chiama da sé lavoro servile. Lo scrupolo che lo accompagna ne è l’espressione pura, ed ha carattere religioso, di una religione che non conosce beatitudine e rende l’uomo pensoso e accresce gli stimoli del suo fare. Si direbbe che con questo si giunga per nuova via alle soglie del mistero, e di là alle immaginazioni di un’altra vita. Ma non ce n’è nulla, e con quella rinunzia alla beatitudine, l’uomo paga semplicemente la sua nobiltà. E questa nobiltà fa si che noi ci distacchiamo dall’opera nostra, e la poniamo sopra di noi, La nutriamo con il nostro dolore, ci consumiamo in essa per farla bella; ma la sua bellezza appena intravvediamo nell’animo creativo e tosto ne siamo separati, sospinti a nuovi compiti, a risolvere nuovi problemi.

Ci sia consentito immaginare che alla data della sua scomparsa (20 novembre 1952), il naturaliter christianus Croce si sia licenziato dalla dimensione terrena, facendo propria l’invocazione del Santo profeta Simeone: “Nunc dimittis servum tuum, Domine, secundum verbum tuum in pace”.

Aggiornato il 01 agosto 2022 alle ore 12:12