Ancora una volta… ma non sarà certamente mai l’ultima. Questa volta tocca a Pieter Paul Rubens, pittore fiammingo del primo barocco del Seicento. O, meglio, a chi per lui. Perciò mi scuso subito con i pazienti lettori, se in questa occasione dovrò necessariamente addentrarmi in un linguaggio più tecnico, cercando di essere il meno noioso e didascalico possibile.

Non entro e non voglio farlo, nel merito dell’azione che ha condotto una delle nostre eccellenze italiane, ovvero il Nucleo per la Tutela del patrimonio culturale dell’Arma dei carabinieri, a intervenire sul dipinto da poco posto sequestro a Genova ma prontamente riesposto al pubblico, quanto invece vorrei far capire al pubblico dei non addetti ai lavori in quale misura sia nebuloso ed evanescente, fluttuante, vago e indistinto il mondo delle attribuzioni artistiche. Tranne quei casi nei quali vi sia l’assoluta e inoppugnabile certezza dell’autore. Nell’arte tutto è sempre, o quasi, rivedibile e riscrivibile.

Prendiamo un altro episodio eclatante di qualche tempo fa, il Salvator Mundi attribuito a Leonardo da Vinci e come tale pagato – spesso o quasi avviene così – con l’intervento di banche e mercanti d’alto cabotaggio. Investimenti, speculazioni e altro, in campo artistico, sono sempre esistiti, a volte già creati dagli stessi pittori famosi nel loro tempo. E quindi cosa diremmo se ipotizzassimo – e nessuno può vietarci di farlo – che il Salvator Mundi non fosse realmente del pennello del Vinciano, ma un’opera pregevole di uno sei suoi allievi? Scuola leonardiana, ma non Leonardo dunque… il che comporterebbe, comunque, un considerevole ridimensionamento del valore ma non il suo azzeramento.

Quindi, questo Rubens – e visto in foto mi dà da pensare – potrebbe anche non essere tale, bensì soltanto un bellissimo dipinto di scuola fiamminga che al pittore olandese fa capo. Del resto, nel catalogo è riportato “P.P. Rubens e bottega”. Sappiamo, però, che in antico – appunto – i Maestri a capo di una loro bottega incaricavano gli allievi migliori di eseguire opere per loro compito, conservando magari per loro stessi le più eccelse commissioni.

Quindi, un’attribuzione è sempre, o quasi sempre, un’opinione e come tale “opinabile”. E se intervenissero nuove ricerche, fonti e documentazioni, potrebbe essere anche sovvertita. È successo innumerevoli volte che, per esempio, qualcuno abbia attribuito un’opera a Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio e invece essa fosse di un suo eccelso imitatore… oppure il contrario. Qualcuno ha mai visto lo straordinario film dal titolo Fantasmi a Roma? Ecco, se non lo aveste fatto, guardatelo e forse, tra una risata e l’altra sul filo di una raffinata e colta ironia, imparerete molto di più sul mondo della Storia dell’arte da una deliziosa commedia che da molti giornali o da molti libri, per tacere della televisione.

Proprio per questa forma di incertezza “congenita” alla materia, nella Storia dell’arte si utilizza il termine tecnico “scuola” – ad esempio, “scuola senese” o altro – per indicare un’opera che potrebbe essere di mano del Maestro di riferimento ma comunque eseguita da allievi o altri pittori appartenenti al medesimo ambito artistico. Tutto ciò, naturalmente, crea una discrepanza, talvolta, tra il valore di mercato di un’opera e il suo valore come interesse artistico.

Altro fattore di assoluta importanza e imprescindibilità è la documentazione legata al dipinto o, comunque in genere, a un’opera d’arte, a un manufatto. Più essa sarà completa tra ricostruzione dei proprietari, passaggi di proprietà, certificazioni, autentiche e – non lo si dimentichi, visto che oggi la tecnologia e la scienza hanno fatto passi da titani nell’ausilio agli storici dell’arte – analisi scientifiche effettuate sul dipinto, tanto più facile e precisa potrà essere la sua attribuzione.

Il campo delle attribuzioni artistiche è quindi a dir poco insidioso, ma non per questo deve essere considerato il terreno di caccia indiscriminata da parte di persone prive di scrupoli, che possano utilizzare i varchi esistenti per una vera e propria speculazione “di frodo”, o lasciando il transito incustodito per falsificazioni o altro a critici prezzolati.

Ultima cosa ma non di minore importanza: è necessario ricordare o far sapere ai più che, anche con le adeguate tecniche odierne, sarà sempre più difficile falsificare o riprodurre un’opera d’arte di quattro o più secoli fa, rispetto a una dei primi del secolo scorso. Tant’è vero che la maggior parte delle attuali falsificazioni riguarda i dipinti dal tardo Ottocento – e soprattutto del Novecento – sino a quelli dei nostri giorni. Insomma, si rischia molto meno con una pala d’altare fiamminga del XV secolo che non con un presunto quadro di Vasilij Kandinskij o con un Teomondo Scrofalo.

Aggiornato il 09 gennaio 2023 alle ore 10:35