La tecnica e il ritorno alle scienze umanistiche

Come ridisegnare il nostro tempo

Viviamo ormai in un mondo dominato dalla tecnica, che assume una sua dimensione metafisica con la creazione e sviluppo dell’Intelligenza artificiale (Ia). Questa, sembra destinata a sostituire l’uomo non solo nelle attività produttive ma anche in quello che è l’ambito più umano di tutti, il pensiero e la sfera dei sentimenti emozionali.

Ma è possibile una dimensione di autonomia dell’Ia nel campo della metafisica e la sua sostituzione del pensiero? A questa domanda sembra difficile dare una risposta positiva, ma certamente il suo uso tecnico favorisce la soluzione anche di soluzioni di problemi, di letture, di risposte nel mondo delle scienze umanistiche. Eppure, a parere di chi scrive, l’Ia non potrà mai entrare nel campo emozionale dei sentimenti e sostituirsi al pensiero, che trova le sue radici nel mondo classico, delle scienze umanistiche, di quelle definite scienze morte ma che sono altamente utili e indispensabili nella costruzione del cogito umano.

La tecnica che sembra sostituire la cultura classica ha un effetto anestetizzante sull’animo umano e porterà sempre più l’uomo – i giovani in particolare – verso un mondo asettico deprivato delle emozioni e prevalentemente materialista, conducendo l’uomo alla banalità del male che lascia insensibili di fronte ai dolori e ai drammi delle guerre. Forse, è da attribuire a questa svolta culturale e al crescente materialismo il progressivo allontanamento del mondo occidentale dalla religione e da una dimensione spirituale della vita. Al contrario, senza questa essenziale parte della nostra esistenza le società senza un briciolo di spiritualità sono condannate, come dimostra la storia, a collassare perché l’immaginazione e la creatività vengono assegnate alla tecnica che non potrà mai sostituirle.

Anche la progressiva disattenzione verso le scienze umanistiche e classiche, definite come superate dalla storia, genera un impoverimento del pensiero – che è proprio dell’animo umano – ma un ritorno alle scienze classiche diventa un nuovo punto di ripartenza, per ritornare a una dimensione spirituale dell’uomo e per cominciare a porci delle domande sulla nostra esistenza, sul nostro destino. Proviamo a capire e proporre una linea di pensiero che ci consenta di rispondere al nostro declino. Senza dare evidenza ai costi e ai benefici di un processo volto a ridefinire il senso della storia, per capire le relazioni che legano i fatti nel tempo e le correlazioni tra cause e effetti nella storia, si cade esausti nella sindrome del “criceto”. Il “criceto” nella gabbietta corre con sempre maggiore agitazione e velocità, ansimando e facendosi scoppiare il cuore. Corre per correre: ma dove, perché corro, sono domande che non hanno risposte. Il correre diventa fine a sé stesso e serve solo per stare in un equilibrio dinamico, sospeso nel vuoto e nell’angoscia del vivere senza chiare speranze per il futuro.

Il giudizio di inutilità delle lingue morte è la pericolosa deriva culturale del dibattito in merito al migliore tipo di liceo del mondo – quello classico – (è il giudizio di chi scrive ovviamente), proprio oggi che l’umanesimo diventa la strada da percorrere per superare l’era dei barbari, come Giambattista Vico aveva definito nel ripetersi della storia l’estremo limite del degrado sociale e morale, che segna “i corsi ed i ricorsi storici”. Il grande Vico, che scrisse Scienza nuova (prima), nel 1725 aveva avuto un’intuizione geniale sulla ripetitività della storia, perché la natura del suo attore non è mai cambiata e la storia viene dettata dalla natura emozionale dell’uomo perennemente dibattuto tra la strada dell’aggressività e quella della solidarietà – l’Eros e la Thanatos in greco antico – che il genio di Sigmund Freud, profondo studioso di queste due lingue, aveva analizzato disegnando la struttura psichica della natura umana.

Le epoche storiche si alternano a seconda del prevalere di uno o dell’altro modello sociale, tendente a una maggiore o minore solidarietà e allo stesso modo per l’aggressività: in questo caso il contesto socio-culturale conflittuale contribuisce a esaltare la parte aggressiva dell’animo umano e si finisce nel dolore delle guerre. È il dolore dello scontro tra uomini che porta poi alla saggezza come aveva intuito il grande Eschilo e i tragici greci – Sofocle ed Euripide – dovranno passare 2mila anni prima di avere un tragico come William Shakespeare alla loro altezza; l’uomo non è naturalmente buono altrimenti le religioni non metterebbero come primo comandamento: “Ama il prossimo come te stesso”.

Vico evidenziava l’alternarsi del tempo degli dei, degli eroi e degli uomini barbari che rappresenta il periodo deteriore da cui l’uomo deve provare a riportarsi al tempo degli dei. Nel lungo tempo, si può scorgere il dramma della vita dell’uomo a partire dal pensiero greco la cui antica lingua, oggi, non sarà comunemente parlata. Ma il contenuto del suo pensiero ha contribuito – e contribuisce – allo sviluppo della civiltà occidentale e rappresenta la sua matrice culturale. Rischiamo di avere lingue vive e un pensiero morto e lingue morte ma un pensiero vivo. Siamo alla fine di un modello socio-culturale, che ha innalzato il sapere tecnico e strumentale a verità incontrovertibile, attribuendo a esso un valore finalistico e metafisico che non ha e così le domande che facevamo alla filosofia, alla religione, alla mitologia oggi le facciamo alla medicina ed alle scienze misurabili.

Il pensiero unico tecnico-razionale ha soffocato il pensiero creativo e intuitivo. Siamo tornati verso una sorta di cultura alessandrina, operosa, scientifica, dedita solo ai fatti ma priva della capacità di fare vere ed importanti scoperte per la vita profonda dell’uomo ed incapace di creare un solo vero valore. La deificazione della tecnica e del principio di utilità ha come “nemesi” la crescente aridità nel campo delle conquiste artistiche, filosofiche, religiose e anche scientifiche. È almeno da John Maynard Keynes, profondo studioso degli studi classici, che non si produce una teoria generale e proprio lui in La fine del laissez-faire scriveva: “Uno studio approfondito della storia del pensiero è premessa necessaria all’emancipazione della mente il cui fine è rivolto al perseguimento della massimizzazione del bene morale ovvero della massimizzazione del valore dei comportamenti umani intersoggettivi quali affetti personali, verità e bellezza”. Alla fine, la storia ha dato ragione a lui e ha sconfessato alle fondamenta la scuola di Chicago che ha contribuito a deificare la finanza.

Oggi siamo in una profonda crisi antropologica, una sorta di passaggio tra il tardo Impero romano ed il Medioevo. Non abbiamo ancora capito le radici dei nostri guai, così continuiamo a peggiorare lo stato delle cose. Ogni singolo giorno abbiamo devastazioni di ogni tipo e si continua a parlare di crisi economica e non della vera crisi dell’uomo, come persona che ha rinunciato a pensare, lasciandoci in balìa di antichi fantasmi che sembravano finiti dopo le due devastanti Guerre mondiali, ma che sono puntualmente riapparsi in una era globale come le dannazioni bibliche.

“Se si segue il principio di utilità nel sistema educativo il “sapere” diventa consacrato al “sapere utile” e ai mestieri. Il compito principale della scuola è formare uomini d’affari di successo, ingegneri, tecnici e avvocati. I saperi pratici più ricercati riguardano l’arte di ammassare denaro, l’arte culinaria, il taglio dei capelli, la ricerca esteriore di presentarsi. Di conseguenza la scuola mostra scarso interesse – ammesso che vi sia – verso lo scopo, oggi dimenticato, di ogni effettiva forma di conoscenza e sapienza: ”la natura del sapere vero e dei valori veri”, scriveva Pitirim Sorokin nel 1941 (!) ne La crisi del nostro tempo. Il liceo classico, lo dice uno che ha fatto lo scientifico (ma allora veniva scelto il liceo più vicino a casa e comunque rimane una importante scuola), fu introdotto da Giovanni Gentile che prese atto di quanto la cultura classica fosse fondamentale per sviluppare il pensiero e la creatività, qualità che oggi sono inaridite. È la storia dell’uomo a mostrare quanto la conoscenza e il pensiero siano fondamentali per portare avanti le società nel tempo.

Le forme aprioristiche di prevenzione sono solo dannose e volte al breve tempo, gli studi classici hanno segnato la vita di tanti che hanno portato avanti il mondo: Enrico Fermi, Rita Levi di Montalcini, Ettore Majorana, Renato Dulbecco, e questi solamente in Italia. Ma se alziamo la testa verso la storia abbiamo Keynes, Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises, Freud, Albert Einstein, Karl Marx, Gottfried Wilhelm Leibniz, Werner Karl Heisenberg.

George Bernard Shaw disse: “Otto uomini possono essere indicati come facitori del mondo”. E indicò Pitagora, Aristotele, Tolomeo, Niccolò Copernico, Galileo Galilei, Giovanni Keplero, Isaac Newton ed Einstein. Tutti avevano la stessa cultura classica come fonte d’ispirazione. L’umanità manda a distanza di secoli piccoli uomini ad affacciarsi per tutti noi agli abissi sui quali viaggia la Terra, ardono i soli e cammina la Luce.

Tutti i grandi politici che hanno esteso il Commonwealth studiavano a Oxford e a Cambridge dove le materie di base erano quelle classiche a partire dal greco e dal latino. E hanno assorbito una visione più integrale della natura umana e delle modalità con cui si evolve la storia. Da quando è prevalso il modello culturale tecnico-razionale si è perso il contatto con lo scorrere della storia, perché si guarda solo al futuro come garanzia di successo. Così l’homo sapiens, come abbiamo presunto di chiamarci, mentre sembra molto attento a capire le cause e gli effetti dei malanni fisici mostra di non riuscire a capire più le relazioni tra cause ed effetti nella sua storia. Si comporta come se il passato non fosse mai esistito e come se la storia non avesse mai mostrato simili a quelle a cui si trova davanti, spinto ad una forma di coazione a ripetere.

Le conseguenze di questa cecità storica sono davanti ai nostri occhi ogni giorno, nel vedere i disastri compiuti dalla politica estera degli Usa dominata dall’idea della potenza della tecnica e incapace di capire la storia, perché la sua classe dirigente ha perso il contatto con questa. Gli Usa hanno dimenticato la lezione culturale dei padri fondatori, che erano usi a parlare in latino e greco. Se il principio di utilità è l’unico principio che vale, serve solo ciò che utile, cioè strumentale. Anche la stessa vita può diventare un mezzo per realizzare desideri materiali di breve tempo.

Se questo principio viene invocato per denunciare gli studi classici come non formativi professionalmente, le lingue antiche sono morte. Ma il pensiero che vi sta sotto brilla più che mai e lo studio della loro struttura aiuta ad elaborare la cosa più importante che l’uomo può fare, ma che sembra abbia disimparato a fare seguendo solo le materie tecniche: il Pensiero.

Abbiamo perso la capacità di pensare, perché il pensare costa fatica, tempo, non paga subito ed è pericoloso come diceva Bertrand Russell: “Gli uomini temono il pensiero più di ogni altra cosa al mondo più della rovina e persino più della morte. Il pensiero è sovversivo e rivoluzionario, distruttivo e terribile; il pensiero è spietato nei confronti del privilegio, delle istituzioni e delle comode abitudini; il pensiero è anarchico e senza legge, indifferente verso le autorità, incurante dell’ormai collaudata saggezza dei secoli passati. Il pensiero guarda nella voragine dell’inferno, ma non ha paura… Il pensiero è grande, acuto e libero, la luce del mondo, e la più grande gloria dell’uomo. Se il pensiero non è bene di molti, ma soltanto privilegio di pochi, lo dobbiamo alla paura. È la paura che limita gli uomini. Paura che le loro amate credenze si rivelino delle illusioni, paura che le istituzioni con cui vivono si dimostrino dannose, paura di dimostrarsi essi stessi meno degni di rispetto di quanto avessero supposto di essere”.

(*) Professore emerito dell’Università Luigi Bocconi

Aggiornato il 05 aprile 2024 alle ore 14:28