Riforma fiscale: se le partite politiche si giocano sui tavoli tecnici

La delega fiscale approvata dal Governo è nella sostanza una scatola vuota, a causa della indeterminatezza dei criteri direttivi che essa contiene. Alla genericità delle formulazioni corrisponde estensione massima dei poteri di chi eserciterà la delega, e quindi di fatto violazione della riserva di legge in materia tributaria. Alla fine quel che inciderà nella vita quotidiana degli italiani dipenderà dalla capacità delle forze politiche di esprimere esperti di valore nelle commissioni tecniche che scriveranno le nuove disposizioni. Come la maggior parte dei fatti della vita, il disegno di legge per la delega fiscale, varato dal Consiglio dei ministri il 4 ottobre, presenta almeno un aspetto positivo e uno negativo. L’aspetto positivo è che esso è forse il primo Disegno di legge in materia fiscale che è riuscito a unire i pareri di economisti, fiscalisti e commentatori: risultato tanto più mirabile in quanto, lo si sa, quando si parla di tributi i pareri, le opinioni e le proposte sono in genere tanto numerose quanti sono gli esperti o, per meglio dire, anche più numerose degli esperti, se si tiene conto che molti sostengono spesso allo stesso tempo una ricetta e il suo contrario logico.

L’aspetto negativo è che il parere è sì concorde, ma nel senso di riconoscere che la delega varata è allo stato una scatola essenzialmente vuota. Leggendo il testo della delega, questa comunanza di vedute appare ampiamente giustificata; essa afferma in massima parte criteri direttivi ovvi, come la “razionalizzazione e semplificazione del sistema tributario anche con riferimento agli adempimenti a carico dei contribuenti”, “l’aumento dell’efficienza della struttura delle imposte”, “ridurre l’evasione e l’elusione fiscale” (cfr. articolo 1), “migliorare la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa”, “la chiarezza del diritto nel sistema tributario”, “la semplicità della disciplina relativa a ogni settore” (articolo 9). Come non essere d’accordo con questi principi? Il problema è che a essi possono darsi contenuti talmente diversificati da renderli, appunto, giuridicamente in sé del tutto evanescenti.

Per altro verso, in questa generale ovvietà e indeterminatezza della prospettiva di riforma si guarda più spesso alla pagliuzza che alla trave. Così, la delega si sofferma su aspetti di dettaglio, come ad esempio gli ammortamenti (articolo 4 comma 1 lettera d), che tuttavia richiedono interventi marginali e tendenzialmente risolubili sul piano regolamentare: i coefficienti sono infatti fissati con decreti ministeriali, e sono anzitutto questi che richiedono di essere aggiornati da oltre trent’anni. Al contrario, mancano concetti chiave per la riforma fiscale di cui ha bisogno l’ordinamento italiano. È significativo che nel testo varato non compaia mai il concetto di “diritti dei contribuenti”, neppure quando si prospettano i fasti giustinianei (o napoleonici?) di una “codificazione in materia tributaria” (articolo 9). La delega segna così un passo indietro, anche negli auspici, rispetto ad altre deleghe precedenti, poi non andate in porto, che si erano almeno proposte di affrontare questioni improcrastinabili, come il contraddittorio preaccertativo; il tema non è stato certo risolto dall’articolo 5-ter del decreto legislativo n. 218/1997, come evidenziato dalla dottrina. È significativo che nel testo varato non si dedichi neppure una parola al tema della fiscalità della famiglia. Si tratta di lacune di grave entità, per una riforma che ambisca a migliorare l’equità del nostro sistema impositivo.

Alcuni aspetti, poi, lasciano francamente perplessi. Se la riforma andasse in porto, l’Irpef verrebbe definitivamente smembrata e l’imposizione progressiva interesserebbe i soli redditi di lavoro dipendente e alcune fattispecie residuali, cosiddetti redditi diversi, mentre tutto il resto sarebbe soggetto ad aliquote proporzionali (articolo 3). Siamo certi che un’impostazione del genere, cioè tassare di più i lavoratori rispetto agli investitori di capitali, sia compatibile, non soltanto con il principio di progressività del sistema tributario, ma soprattutto con il favor che la nostra Costituzione accorda al lavoro, al punto di porlo a fondamento della Repubblica? Se sul piano costituzionale una delega così generica risulterebbe inidonea a soddisfare i requisiti richiesti dalla Corte Costituzionale in relazione all’articolo 76 della Costituzione, sì che se il Parlamento vorrà approvarla dovrà integrarla e precisarla in modo penetrante, il dato sistematico appare ancor più significativo e preoccupante. Più vaga è la legge delega, più ampi sono i poteri del governo nel definire i contenuti della riforma. Così, la gloriosa riserva di legge in materia tributaria, frutto di secoli di civiltà giuridica, viene ulteriormente svuotata del proprio contenuto sostanziale, ridotta a un simulacro formale ormai sempre più privo di contenuti.

Ma non è tutto. Nell’ambito dell’azione governativa, la redazione dei decreti legislativi è notoriamente rimessa a tavoli tecnici, ove l’incidenza della rappresentanza politica del governo risulta soltanto indiretta. Una volta predisposti i testi dei decreti delegati da parte dei tecnici, lo spazio per l’azione politica, seppure esistente, risulta significativamente ridotto. È questo un problema generale delle materie tecniche, come la fiscalità, e la vaghezza dei principi di delega si presta a spostare ulteriormente l’ago della bilancia dal potere politico al potere tecnico. Sennonché, è fallace l’idea che la tecnica abbia natura oggettiva e possa attingere una verità e bontà assoluta. Tutte le soluzioni tecniche sono comunque orientate dai valori di chi le elabora: a fronte di un medesimo problema da risolvere, molte sono le scelte tecniche possibili, e la preferenza dell’una piuttosto che dall’altra, ciò in cui si sostanzia il lavoro che dovrà compiere la commissione ministeriale incaricata dalla stesura dei decreti di riforma, dipenderà in ultimo dalle opzioni assiologiche e in senso ampio “politiche” dei tecnici redattori. Pico della Mirandola, in un suo celebre discorso sulla dignità dell’uomo, ebbe modo di affermare che “nell’uomo nascente il Padre ripose semi d’ogni specie e germi d’ogni vita. E secondo che ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno in lui i loro frutti. E se saranno vegetali sarà pianta; se sensibili, sarà bruto; se razionali, diventerà animale celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio”.

Lo stesso può dirsi, mutatis mutandis, per la presente delega di riforma tributaria. Se le forze politiche saranno in grado di esprimere nelle stanze tecniche esperti di valore per la definizione dei contenuti della riforma, che sappiano coniugare la competenza specialistica con un patrimonio di valori e visione del mondo coerente con le forze politiche che li esprimono, che sappiano “difendere” tra tecnici e con argomenti tecnici la soluzione più conforme a certi valori politici, dalla riforma potrebbe uscire qualcosa di buono per il sistema e di politicamente spendibile per le forze politiche stesse. Altrimenti, esse subiranno passivamente le decisioni prese da altri e non potranno avere la forza, nelle sedi politiche classiche, dai Consigli dei ministri alle Commissioni parlamentari, per far valere la propria visione e i propri valori in modo efficace e politicamente comprensibile. La partita della riforma fiscale si gioca nelle commissioni ministeriali. E va giocata bene.

(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino

Aggiornato il 12 ottobre 2021 alle ore 11:57