Il libero mercato dopo la globalizzazione

Stiamo vivendo un momento storicamente pregno di significato e di implicazioni per il futuro. Il conflitto russo-ucraino potrebbe rappresentare la chiusura di una parentesi pluridecennale e che pensavamo rappresentasse la “fine della storia” in senso hegeliano: la globalizzazione. Ci eravamo illusi che il mondo fosse ormai giunto a una situazione di equilibrio ottimale, in cui le varie nazioni e blocchi di nazioni sarebbero stati capaci di convivere pacificamente tra loro e finanche di superare appartenenze e identità, grazie al comune interesse allo scambio, alla libera circolazione di idee, informazioni, merci, capitali e persone. Noi liberisti per primi ci eravamo convinti del fatto che la storia ci avesse finalmente dato ragione anche su questo fronte: non solo il libero mercato è il sistema migliore per assicurare prosperità (o quantomeno un relativo benessere) al maggior numero di persone, ma è anche una garanzia di pace e di stabilità, se si raggiunge quel livello di interconnessione economico-finanziario tale da legare tutti i popoli allo stesso destino e di renderli dipendenti gli uni dalle sorti degli altri. Ma ora possiamo dire che si trattava più di un desiderio o di una speranza, che non di un fatto oggettivo e incontrovertibile.

Ancora oggi, in pieno Ventunesimo secolo, le guerre sono sempre dietro l’angolo ed è bene essere sempre pronti a combatterle. Questo perché, se un tempo l’oggetto del contendere erano perlopiù le ragioni economiche – per cui si riteneva fosse sufficiente mettere a punto un sistema di scambio e di relazioni economiche aperte per assicurare al mondo la pace e la stabilità – e politiche – la potenza di uno Stato era data dalla quantità di soldati, di armi e di vastità del suo territorio, ergo si sarebbe dovuto fare in modo che tale potenza fosse data, invece, dalla prosperità e dalla dinamicità economica – oggi l’asse dei potenziali conflitti si è spostato verso l’identità, intesa come complesso di valori e costumi morali, politici e culturali e sulla necessità di renderli predominanti.

Quella tra Russia e Ucraina (con la co-belligeranza “de facto” dell’Occidente) non è una guerra economica e nemmeno politica: Vladimir Putin non ha invaso l’Ucraina per appropriarsi delle sue ricchezze o semplicemente per allargare i suoi confini, ma per assicurare al suo Paese una sfera d’influenza e per ristabilirne il ruolo di “Stato-guida” di un blocco geopolitico. L’Ucraina, dal canto suo, non vuole far parte di quel blocco, al quale non sente più di appartenere. L’Ucraina intende entrare a far parte della civiltà occidentale, che percepisce come più appropriata ai suoi obiettivi, alle sue aspirazioni e all’assetto socio-politico ed economico che sta cercando di darsi.

Tutto questo, vuol dire che l’interconnessione e l’interdipendenza economica tra le nazioni non basta a garantire la pace e la stabilità mondiale: quindi, che l’era della globalizzazione potrebbe essere ufficialmente conclusa. Anzi, nel futuro che si va delineando, in cui i vari blocchi geopolitici saranno costantemente in tensione tra loro e in cui tali tensioni daranno luogo a periodici scontri e addirittura guerre – perlopiù al limitare tra le varie sfere d’influenza – la dipendenza economica tra le nazioni potrebbe costituire un problema, un punto di debolezza: poiché potrebbe rendere le nazioni e le sfere d’influenza ricattabili, come stiamo vedendo in questi giorni, con le sanzioni occidentali che piegano l’economia russa e la Russia che minaccia di rispondere con il taglio nelle forniture energetiche. Il futuro, insomma, non è l’interdipendenza economica, ma l’indipendenza dei vari blocchi geopolitici rivali. Da qui la necessità – finalmente compresa dall’Unione europea – di perseguire quel fondamentale obiettivo che è l’auto-sufficienza energetica e, successivamente, tecnologica, produttiva, alimentare, fino a conseguire una vera e propria indipendenza, l’unica che può garantirci l’emancipazione rispetto ai nemici della nostra civiltà e che può mettere al sicuro le nostre libertà occidentali.

Ma questo non significherebbe tornare indietro rispetto al libero scambio? E non vorrebbe dire tradire i nostri stessi valori occidentali, tra i quali c’è senza dubbio anche la libertà declinata in senso economico, cioè capitalistico? No, non sarebbe una inversione di marcia, ma un adattamento alle circostanze, una “presa di coscienza” del fatto che abbiamo vissuto gli ultimi decenni della nostra storia nell’illusione che l’interesse economico fosse più forte della volontà di potenza, dell’istinto di sopraffazione e dello stesso senso di appartenenza a una nazione o a una civiltà. E la progressiva “chiusura” dell’economia occidentale non sarebbe affatto un tradimento dei nostri valori liberali, ma una mossa necessaria per proteggerli e per assicurare la loro esistenza.

Ad aver tradito il liberismo, semmai, sono stati quelli che l’hanno idealizzato talmente tanto e che ne hanno radicalizzato i principi a tal punto da pretendere che le economie di mercato come quella europea o quella nord-americana potessero davvero competere con le economie socialiste come quella cinese o con quelle che si fondano sullo sfruttamento del lavoro e sul sostanziale azzeramento dei costi di produzione come quella indiana. La concorrenza funziona solo a parità di regole e condizioni, e dal momento che tale parità esiste solo in Occidente, allora l’unico modo di far funzionare una economia concorrenziale è quella di limitarla al solo ambito occidentale. Ad aver tradito il liberismo sono stati quelli che hanno pensato che la dipendenza reciproca tra le nazioni fosse di per sé una garanzia di pace e che, per questo, non hanno compreso che alcune nazioni, culture e blocchi geo-politici hanno approfittato di questo per praticare una vera e propria “economia di conquista” – cinesi e arabi in primis – cioè per mettere il giogo all’Occidente, per renderlo ricattabile e infine privarlo delle sue libertà sfruttando la fede di questa parte di mondo nella libertà stessa.

La fine della globalizzazione non sarà la fine del libero mercato, bensì del libero mercato concepito in senso anarchico, in favore di una concezione propriamente liberale del medesimo. Il libero mercato continuerà a esistere, ma tornerà a essere un modello esclusivamente occidentale, capace di funzionare solo in quel determinato ambito – dove, del resto, è nato e si è sviluppato – e in presenza di regole fondamentali poste per la sicurezza e a garanzia dell’interesse di tutti. La libertà liberale – al contrario di quella anarchica – si fonda su un sistema di regole e non sulla loro assenza. Regole che devono essere uguali per tutti, chiare e non prescrittive, cioè prive di indicazioni sugli obiettivi da conseguire, ma volte a circoscrivere il perimetro di liceità delle azioni e delle scelte individuali. Applicando questo principio al nostro discorso, ciascun operatore economico occidentale resterebbe libero di produrre, vendere e comprare secondo le sue esigenze e i suoi interessi, ma solo entro i confini occidentali: perché, in un contesto geopolitico caratterizzato dalla lotta per la civiltà e per la sua sopravvivenza, fare affari con una nazione o un blocco rivale renderebbe vulnerabile la medesima e la esporrebbe a dei seri rischi, rafforzando al contempo i nemici. Nessun diritto è assoluto e ogni diritto deve essere contemperato coi diritti altrui. Il che significa che non si può sacrificare la sicurezza delle nostre libertà – le cui radici stanno nella nostra tradizione culturale occidentale – alla libertà economica di pochi operatori transcontinentali.

Questo ci induce a ripensare anche il ruolo della politica e il suo rapporto con l’economia. Si badi bene: della politica e non dello Stato, che probabilmente finirà per essere superato – almeno in parte e almeno in Europa – in favore di assetti più grandi, di tipo federale o confederale. Per anni la disputa è stata tra fautori del primato dell’una sull’altra, quando la vera questione avrebbe dovuto essere come fare in modo che i due ambiti coesistessero e riuscissero a contemperare le rispettive esigenze senza invadere la reciproca sfera di competenza. In altre parole, invece di dividersi in tifoserie, sarebbe stato meglio mettere a punto un sistema in cui fosse possibile la più vasta libertà degli operatori economici di perseguire i loro interessi pur in presenza di un sistema di regole e di istituzioni forti, capaci di farle rispettare per garantire la sussistenza delle condizioni necessarie per la conservazione di quella e di tutte le altre libertà.

La stessa Unione europea, alla quale molti hanno rimproverato di essere una Comunità fondata unicamente sull’economia, sulla moneta e sulle regole di bilancio, ora inizia a comprendere come – per usare le parole dell’Alto commissario, Josep Borrell – pur avendo costruito un “bellissimo giardino”, sia necessario andare oltre e prevedere un sistema capace – attraverso la legislazione e le forze militari – di custodire e difendere questo “giardino”, se fuori di esso c’è la giungla, cioè la barbarie e la violenza.

Ora che sono crollati questi tabù – creazione di una difesa comune, più spesa militare e perseguimento dell’indipendenza energetica dall’esterno, che si presume sia la premessa di una auto-sufficienza economica tout court – c’è da auspicare che crolli anche l’ultimo: quello di una politica comune sull’immigrazione che tratti la questione del punto di vista della sicurezza e delle nuove sfide geopolitiche che ci attendono. Un primo passo è già stato fatto con la decisione, presa in comune, di offrire protezione ai profughi ucraini, ma c’è ancora molto da fare per quanto concerne l’immigrazione extra-europea. L’immigrazione – già usata come mezzo di conquista da parte del mondo arabo-musulmano – in futuro sarà sempre più un’arma che i nemici dell’Occidente useranno per destabilizzarci. In questo senso, le manovre russe e cinesi nell’Africa Nera e in Medio-Oriente dovrebbero farci sospettare qualcosa: che Mosca e Pechino abbiano deciso di promuovere e foraggiare le ondate migratorie per mettere in difficoltà l’Europa? È possibile. Ed è per questo che dovremmo cominciare a pensare a dei confini europei da presidiare e difendere assieme a un’identità europea minacciata da un multiculturalismo che ci sta sfuggendo di mano e che, di questo passo, potrebbe portare alla “balcanizzazione” dell’Europa e alla guerra interna tra varie etnie e culture. Il primo passo è riconoscere che esiste una sola vera civiltà, quella occidentale; che il relativismo culturale ha fallito e che, prima ancora di difendere i confini, quello che bisogna fare è ingaggiare una battaglia contro la “cancel culture” e i suoi promotori.

In conclusione, stiamo vivendo un momento storico: ci stiamo dirigendo verso un nuovo mondo; stiamo entrando in una nuova era caratterizzata dallo scontro tra blocchi geopolitici ed economici contraddistinti dall’indipendenza e dall’autoreferenzialità in perenne tensione e conflitto tra loro. Questa non è la fine del libero mercato, ma il suo ritorno a una dimensione di ragionevolezza e di praticabilità che, negli ultimi anni, si era persa di vista: ragionevolezza e praticabilità basate sulla consapevolezza che la libertà economica è solo una parte di una più vasta gamma di libertà dipendenti le une dalle altre e che possono essere difese solo da precisi meccanismi e dispositivi di sicurezza che, lungi dal limitarle o comprimerle, le rendono effettive.

Aggiornato il 10 marzo 2022 alle ore 10:59