La politica monetaria: rimedi contro l’inflazione

giovedì 1 settembre 2022


L’inflazione galoppante che sta caratterizzando il 2022 in tutto il mondo occidentale ha riportato al centro della strategia delle banche centrali lo strumento tecnico della politica monetaria. Occorre premettere che il tasso d’inflazione Usa – che a luglio ha toccato quota 8,5 per cento contro il 9,1 per cento del mese precedente – ha una dinamica diversa da quella europea. Negli Stati Uniti, l’inflazione è generata in prevalenza da una domanda sostenuta dei consumi da parte degli americani, anche grazie a una crescita dell’occupazione che ha raggiunto livelli di piena attività per un sistema economico di tipo capitalistico. In un’economia di mercato, è considerata fisiologica una disoccupazione entro il 5 per cento della forza lavoro attiva.

In Europa, invece, l’inflazione è, nella parte più significativa, generata dalla importazione di materie prime con particolare riferimento in questo momento al gas e al petrolio. Gli Usa sono autosufficienti dal punto di vista energetico. Le fonti fossili hanno raggiunto prezzi ed effetti sull’economia che non si vedevano dai tempi della crisi del petrolio del 1973. In sostanza, l’inflazione europea (come quella italiana) è causata dall’importazione di prodotti energetici. Per contrastare l’inflazione negli Usa, la Federal Reserve è passata da un tasso di riferimento tra lo zero e lo 0,25 per cento di gennaio 2022 a un intervallo compreso tra il 2,25 e il 2,5 per cento attuale. Tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere che continuerà l’aumento del saggio d’interesse della Fed fino a quando non sarà raffreddata l’inflazione, raggiungendo livelli considerati accettabili. In definitiva, il presidente della Fed, Jerome Powell, continuerà la politica aggressiva di aumento dei tassi di riferimento.

Torna utile ricordare ai nostri lettori che cos’è e come funziona la politica monetaria. È lo strumento adottato dalle banche centrali per regolare e controllare il livello di liquidità del sistema finanziario nel suo complesso. La Bundesbank tedesca è stata storicamente maestra nella regolazione delle attività finanziarie del sistema, nel contenimento dell’inflazione e del potere d’acquisto del vecchio marco tedesco. Quando l’Istituto d’emissione della moneta vuole stimolare l’economia, riduce i tassi d’interesse di riferimento ovvero il costo del finanziamento delle banche che chiedono prestiti alla banca centrale. A tassi d’interesse più bassi corrisponde una maggiore propensione agli investimenti per le imprese e al consumo per le famiglie. Gli aumenti dei tassi di riferimento incrementano il costo del finanziamento e, quindi, diminuisce la propensione agli investimenti delle imprese e aumentano i risparmi delle famiglie che vedono meglio remunerato il loro investimento in titoli obbligazionari. L’aumento dei tassi d’interesse drena liquidità dal sistema, si riducono i consumi e si raffredda l’inflazione.

La politica di aumento dei tassi d’interesse della Fed americana sarà attuata anche dalla Banca centrale europea. Gli effetti si sono già manifestati con l’aumento dei tassi d’interesse su nostri Btp di nuova emissione che, su quelli con scadenza decennale, ha raggiunto un rendimento lordo del 3,76 per cento con un incremento di 30 punti base. Se la politica monetaria aggressiva della Fed – di aumento del costo del denaro – non raggiungesse nel breve periodo l’obiettivo sperato dell’abbassamento dell’inflazione, è possibile che sarà attuata una politica di recessione pilotata. La recessione spegne le spinte inflazionistiche. L’Europa rischia invece la stagflazione: stagnazione e inflazione!


di Antonio Giuseppe Di Natale