Come uscire dalla crisi del gas

giovedì 15 settembre 2022


Dalla scorsa primavera, con lo scoppio del conflitto russo-ucraino, il focus del dibattito si è pian piano spostato dai fatti bellici, entrati in una fase di semi torpore estivo, verso la questione caro energia, esplosa in tutta la sua virulenza. L’impennata senza sosta dei fondamentali energetici vigliaccamente e sapientemente alimentati dalla speculazione di fondi e banche, ha appiattito il dibattito politico ed economico in forma monotematica, un po’ come è stato per il Covid nei mesi passati.

Curiosamente, però, la centralità della questione che alimenta come una malevola benzina l’incendio dei prezzi del gas e, a cascata, quelli dell’intera economia, ossia il persistere del conflitto bellico fra Russia e Ucraina, non viene affrontato malgrado l’enorme gravità della vicenda. Sembra che la risoluzione del conflitto attraverso via diplomatiche sia, più o meno coscientemente, ignorato dal dibattito politico e la guerra accettata con fatalità, senza che nessuno voglia sforzarsi per tornare, il prima e il più indolore possibile, a una situazione se non di pace, almeno di tregua, condizione questa imprescindibile per costruire i futuri rapporti politici. Il paradosso sta nel fatto che tutti lamentano l’aumento dei prezzi del gas, così come la sua sempre più probabile penuria. Ma nessuno, almeno fra i nostri leader, è disposto a dialogare con Vladimir Putin per cercare di tenere le forniture minimamente regolari!

E pensare di ovviare alla fornitura russa nel breve come nel lungo periodo è sicuramente pretestuoso e arrogante: nel primo caso, per la difficoltà della fonte gas a essere immediatamente disponibile, specie a fine inverno; nel secondo, perché voler fare a meno della Russia, il Paese con le più grandi riserve di gas a terra, con il quale siamo già interconnessi da decenni e con il quale abbiamo consolidati e proficui rapporti commerciali sin dagli anni Cinquanta, è assolutamente svantaggioso e non utile in termini di rapporti politico-commerciali. Si fa notare, a supporto di quanto affermato, che per la fonte energetica del gas le sole opzioni possibili sono l’installazione dei rigassificatori e l’implementazione dei giacimenti in mare non ancora depleti. Ma ci vorranno anni per raggiungere tali obiettivi, specie in Italia. E se anche ci si riuscisse, nulla garantisce che il prezzo del gas torni in linea con quello pre-guerra e pre-Covid. Anzi, tutto lascia supporre il contrario, perché il mercato del gnl (gas naturale liquefatto) è estremamente più segmentato di quello delle pipeline e non sono disponibili navi e stazioni di ri-compressione portuali utili a soddisfare l’intera domanda mancante dell’Unione europea, che è aggiuntiva a quella mondiale già presente. Sarà quindi presente un gap fra domanda e offerta, risolvibile solo dal prezzo maggiorato.

Stanti così le cose, fosche nubi si stagliano all’orizzonte per l’incerta e contraddittoria Europa e, ancor di più, per il nostro Paese, il più fragile fra i vasi di coccio continentali, i quali si illudono di poter far a meno delle risorse russe, in termini di forniture e di economicità, anche senza considerare l’esito futuro del conflitto. Dall’altro canto, la Russia non rimane certo in gentile attesa e si sta organizzando con Cina, India e Iran in un’alleanza tattico-strategica da far tremare i polsi: infatti, i tre Paesi sono, nell’ordine, quello col maggior mercato industrializzato del mondo (Cina), quello con la crescita demografica più elevata al mondo (India), e quello con le potenziali maggiori riserve di gas al mondo (Iran) oltre ad essere fra gli Stati più anti-Usa del pianeta, con il quale Putin vorrebbe impostare un’alleanza per la tutela del commercio del gas, stile Opec. Il baricentro del mondo si sta spostando sempre più verso Oriente, forse in modo strutturale, poiché i tre giganti potranno sempre più essere autoreferenziali.

E questo potrebbe risultare uno scenario complicato e delicato, nel quale prezzi, innovazione tecnologia e obiettivi generazionali sono incentrati e parametrati su quei mercati e su quelle società, così come è stato, nel secondo Novecento, nell’affermazione statunitense. Forse stiamo assistendo, in modo piuttosto inconsapevole, alla chiusura del periodo di transizione della globalizzazione, cominciato con una guerra, quella al fondamentalismo e chiusa con il presente conflitto. L’obiettivo, specie per la tentennante Europa, dovrebbe essere più articolato, e tenere agganciata la Russia ai propri interessi, anche perché questo scontro bellico costituisce il vero banco di prova che l’Ue gioca come soggetto politico. E la sta giocando male, perché non persegue i propri interessi, ma quelli degli Stati Uniti e della sua “longa manus”, che è la Nato. Ed in questa occasione è chiamata a una scelta vitale per uscire di minorità: raggiungere coraggiosamente l’autonomia militare e di difesa, oppure appiattirsi sulle posizioni e sugli interessi di altri, che, comunque, vogliono proseguire “un conflitto per rappresentanza”. Insomma, l’Europa deve scegliere e se vuole esistere come soggetto politico e, come player mondiale, deve scegliere se stessa oppure altri sceglieranno per lei. Perché – non ci si illuda al riguardo – l’indirizzo filo-asiatico intrapreso da Putin, anche se mosso su necessità contingenti, durerà a lungo. Perché è su quei mercati e su quelle dinamiche che un Paese come la Russia può sviluppare tutte le sue potenzialità. Perciò, indipendentemente da come si risolverà il conflitto, e persino in caso abbandono dello “Zar”, l’indirizzo asiatico sarà mantenuto a tutto discapito degli Stati europei.

Allora, per la piccolissima Italia così manchevole di infrastrutture e di innovazione tecnologica, conservare un rapporto privilegiato con la Russia, mantenere funzionante lo storico gasdotto, risulta vitale. Soprattutto se si vuole realizzare – lo scriviamo ormai da 15 anni – l’Hub euro-mediterraneo per l’energia. E in tal senso si dovrebbe dare corso al piano potenziamento degli stoccaggi già elaborato dal Mise 15 anni fa, che prevedeva la crescita del “parco” stoccaggi a terra dagli attuali 11 fino a 15, con possibilità di ulteriore crescita, cui si aggiungono i rigassificatori in mare. Si potrebbe così disporre di ulteriori riserve dai 6 miliardi in su, utilissimi per poter approcciare e gestire il mercato del gnl che, come abbiamo accennato, dispone di criticità non rapidamente risolvibili.

Resta poi non risolta la questione del prezzo del gas. I grandi fattori di stress che spingono al rialzo il prezzo del gas in Italia sono il sistema di valorizzazione della commodity e l’avidità speculativa. In nessuno dei casi, le variazioni al rialzo dei prezzi sono dovute a squilibri fra domanda e offerta nel nostro mercato nazionale. A tal proposito, ricordiamo che in Italia il sistema gas è piuttosto rigido nella sua impostazione, nel senso che procedure di rifornimento e modalità di definizione del prezzo nascono predefinite nella loro formulazione contrattuale: eventuali variazioni di prezzo rispetto a quanto prestabilito nell’accordo base della fornitura, sebbene possibili, sono assai limitate, e gli imprevisti come incidenti e rotture sono riassorbiti nel medio-lungo periodo. Una simile costruzione è dovuta alla scelta relativa alla modalità di rifornimento: il gas in Italia arriva prevalentemente via tubo e pagato con contratti Take or pay (Top), accordo che assicura al proprietario del campo di estrazione la sicurezza del pagamento e al compratore la certezza della fornitura. Tale tipologia di contratto ha come obiettivo la stabilità, condizione necessaria a ripagare negli anni i costi elevatissimi delle infrastrutture e che protegge dalle intemperie inflazionistiche. Peraltro, l’acquirente – che è quasi sempre fornitore che acquista all’ingrosso per poi rivendere alla domanda finale – può a sua volta trasmettere tale sicurezza ai propri clienti, di modo che la stabilità d’origine si riverberi di livello in livello fino alla clientela finale. Una simile costruzione durata praticamente un quarto di secolo non è certo casuale ma, al contrario, la si è perseguita perché sul gas si basa l’intero sistema energetico italiano e, di riflesso, l’intera economia nazionale. Pertanto, doveva essere assicurata la sicurezza della disponibilità di gas per l’intera utenza, qualunque fosse la categoria: termoelettrico, industria o residenziale (commercio e abitazioni).

E tale scelta di fondo ha funzionato piuttosto bene negli anni, garantendo sempre forniture e prezzi adeguati. Ma poi qualcosa è cambiato. Nella scorsa decade, nel nostro Paese, si sono registrati delle durevole flessioni nei consumi di gas, specie nel settore industriale, che hanno messo in seria difficoltà tutti gli operatori del settore, cosicché per ravvivare le quotazione sulla Borsa italiana del gas (Gme) si decise con provvedimento dell’Autorità di Regolazione per energia reti e ambiente (Arera) di quotare il valore della commodity secondo l’indice dei prezzi della borsa olandese Ttf (Title transfer facility) che faceva registrare delle quotazioni medie più brillanti e rialziste. Il fatto è che con l’impostazione rigida delle pipeline che è stata adottata nei decenni, l’offerta di gas non impegnata in contratti già definiti presso l’utenza sarebbe sempre poca rispetto alla domanda poiché i consumi energetici, di fondo, sono piuttosto stabili. Le cose sono andate peggiorando, perché si è pensato di estendere l’uso dei derivati (future, option, swap) ossia degli strumenti finanziari con cui sono quotate le commodity energetiche anche sul Psv di Snam rete gas. Quest’ultima è una piattaforma di scambio, non una borsa, dove i vari operatori pareggiano, riequilibrandola, la propria posizione rispetto alla consegna fisica del gas che devono fare presso l’utenza da lì a qualche ora/giorno. Ora, anche queste partite di gas sono valorizzate secondo parametri esteri, e non più secondo la specifica disponibilità locale dei vari operatori che precedentemente praticavano un loro prezzo autonomo. È evidente che si registra un sistematico incremento del prezzo poiché il Benchmark di riferimento è divenuto, per disposizione amministrativa, quello olandese e non più la libera espressione fra domanda e offerta locale.

Su questa impostazione si scatena la speculazione che spinge il più possibile a rialzo i prezzi del gas anche se, almeno per l’Italia, non c’è stata nessuna fornitura mancata né una comprovata mancanza futura. Ma è sufficiente la minaccia di chiusure della fornitura anche lontane dal nostro mercato nazionale – è il caso del Nord Stream – che si anticipano le probabili, plausibili scarsità future del bene e le relative quotazioni vengono gonfiate ad arte. Si ripete: non c’è alcuna variazione fra domanda e offerta nei consumi di gas effettivi, ma solo l’intervento finanziario dei fondi speculativi che spingono al rialzo il prezzo, per speculare sulla differenza fra prezzo d’acquisto e di vendita. Intanto, le aziende e gli artigiani d’Italia chiudono – in testa i panifici – perché l’energia costa troppo cara!

La spinta inflazionistica dovuta a fattori esogeni, gli stessi della lontana crisi dello Yom Kippur, è la tempesta che ci attende e verso la quale si dispone di pochi strumenti, visto il modo in cui sono state costruite le cose. Gli operatori, specificatamente quella della domanda (Pmi, artigiani e commercianti, famiglie) potranno solo cercare di subire, nel modo più indolore possibile, l’escalation dei prezzi. Se infatti l’inflazione parte dai fondamentali energetici verso i quali c’è una quasi totale anelasticità rispetto al prezzo, si colpisce a cascata l’intera economia, sia nei settori immediatamente toccati (illuminazione e riscaldamento) che in quelli più a valle (trasformazione di beni e trasporti). Si tratta di un andamento già sperimentato che ha causato la stagflazione degli anni Settanta, situazione verso la quale ci stiamo incanalando molto rapidamente e senza avere più a disposizione gli strumenti e i margini finanziari, ormai già consumati da tre anni di Covid.

La sola e più veloce azione per mitigare gli effetti dell’inflazione, cha conserva comunque una componente inerziale molto forte, è quella di cercare il prima e meglio possibile una via d’uscita e di pacificazione con Russia al fine di riprendere dei rapporti commerciali, magari su nuovi canoni. La via della forza, per il vaso di coccio che è l’Italia, è la meno indicata.


di Pierpaolo Signorelli