Il vero pensiero di Adam Smith

martedì 29 novembre 2022


L’attuale pensiero unico economico dichiara di trovare le sue prime radici e la legittimazione negli scritti di Adam Smith, in particolare nel suo lavoro “La ricchezza delle nazioni” – del 1767 – e sul senso del libero arbitrio regolato dalla mano invisibile del mercato. Ma il vero pensiero di Smith è totalmente asimmetrico a quest’interpretazione. Il liberismo in tale accezione diventa fine, non mezzo, come Smith lo pensava. E contribuisce alla formazione di un modello di analisi economica votata, in modo esclusivo, a un tecnicismo esasperato e a una finanza egemone, che ha tagliato i ponti con le radici morali e sociali di questa scienza.

Per capire il vero pensiero di Smith, è necessario collocarlo nella storia del suo tempo e nella visione integrale dei suoi lavori, a partire da “La teoria dei sentimenti morali”, opera scritta nel 1759, prima de “La ricchezza delle nazioni”, la cui lettura è fondamentale per comprenderne il pensiero. Il Settecento in cui vive Adam Smith fu un secolo ribelle” dal punto di vista culturale. E viene preparato dal secolo precedente, dove il processo a Galileo Galilei e la rivoluzione di Isaac Newton determinano l’indipendenza della scienza, a fronte di quell’unità di vita che era stata definita dalla religione. Il Settecento è il secolo dell’Illuminismo – il tempo dei lumi – in cui il pensiero speculativo affermerà la libertà dell’uomo nella sua autorealizzazione, il ruolo della ragione e il principio di razionalità, non assoluto ma sottomesso a un ordine morale superiore.

Immanuel Kant scriverà la Critica della ragion pura e preparerà la strada all’idealismo tedesco e al materialismo storico. La rivoluzione americana e quella francese chiuderanno il secolo con le dichiarazioni dei diritti universali dell’uomo: la libertà, l’uguaglianza e la fraternità come fini assoluti, ben lontani dall’esclusivo ed egoistico interesse personale. Smith, illuminista scozzese, condivide con David Hume il ruolo del “principio di simpatia” come regolatore delle relazioni umane e come capacità di immedesimarsi nell’altro. Si afferma il libero arbitrio ma le scelte individuali, pur perseguendo l’interesse personale, devono sottostare all’interesse collettivo. Infatti, scrive, il fornaio vende il pane per seguire l’interesse personale ma deve immedesimarsi nei bisogni di chi lo compra: una forma di “competizione collaborativa” potremmo dire oggi. Era ben chiaro per lui, come per i suoi contemporanei, che i limiti morali erano insuperabili e che l’equilibrio sociale dovesse essere realizzato intermediando l’egoismo e l’altruismo, che definiscono la coscienza morale. Temi, questi, che aveva affrontato all’inizio del suo percorso da studioso, nell’ambito della filosofia morale che insegnava.

Progressivamente, nel secolo successivo – l’Ottocento – la cultura razionale e delle scienze esatte hanno preso il sopravvento e, per dirla con Blaise Pascal, “l’esprit de géométrie” ha prevalso su “l’esprit de finesse” e le ragioni del cuore sono sempre state meno ascoltate dalla ragione. Così, il principio di simpatia collettivo sarà sostituito dal principio di utilità personale. La verità, allora, diventa solo ciò che si vede, si tocca e si misura. Le scienze positive che interpretano la verità diventano esse stesse una verità incontrovertibile. E da sapere strumentale assumono lo statuto di un sapere morale e finalistico. Si afferma il “miraggio della razionalità”, un’illusione della scienza più pericolosa dell’ignoranza.

Anche l’economia subisce quella mutazione genetica e, da scienza sociale e morale, acquisisce la natura di scienza positiva ed esatta. E detta le regole della vita: non si guadagna per vivere, ma si vive per guadagnare. Scambiamo i fini con i mezzi, come Aristotele aveva indicato con il termine di crematistica. Una ricchezza che affama, diceva, ricordando il mito di re Mida. Quando il fine diventa la massimizzazione dell’interesse individuale, il liberismo assunto come fine – esattamente l’opposto di Smith – afferma la legge del più forte e anche la normalizzazione di comportamenti illeciti, che contribuiscono a definire una società perennemente conflittuale e individualista. I danni collaterali alla realizzazione del fine diventano la disuguaglianza, la disoccupazione, la povertà, il degrado morale. Nelle società umane, però, diventa difficile capire i limiti – i punti di non ritorno – oltre i quali i danni collaterali diventano primari. E, prima o poi, si attestano le calamità fatali della guerra e della classe.

Siamo ancora di fronte a un assolutismo culturale che sembrava uscito sconfitto dalle esperienze dolorose del secolo scorso, ma che ci appare ora in modo ingannevole. L’economia deve riconciliarsi con la sua natura di scienza morale e sociale, “serve un nuovo paradigma perché in palio c’è ben più della credibilità della professione o dei policy maker che ne usano le idee ma la stabilità e la prosperità delle nostre economie” (Joseph Stiglitz, Il Sole 24 Ore, 2010) e delle nostre società.

(*) Professore emerito – Università Bocconi


di Fabrizio Pezzani (*)