Il falso problema del caro affitti oggi in Italia

Il loro livello è sempre stabilito dal mercato ed eguaglia la domanda, che è aumentata, all’offerta, rimasta invece stagnante

Secondo i dati dell’Osservatorio Affitti a cura di Immobiliare.it Insights (ma dello stesso tenore sono pure quelli diffusi da altri operatori specializzati): “Negli ultimi 12 mesi gli affitti sono cresciuti ancora, del +10,1 per cento. Solo nell’ultimo semestre l’aumento registrato è di +3,1 per cento. A sorpresa, l’aumento più significativo non si è registrato a Milano (che resta comunque la città con gli affitti più cari d’Italia) ma in una città del Centro”. A tale proposito, la proptech company del gruppo di Immobiliare.it ha analizzato i dati relativi ad andamento di prezzo, domanda e offerta del mercato immobiliare degli affitti rispetto ai 6 e ai 12 mesi precedenti nei grandi capoluoghi (Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Torino, Venezia), in quelli piccoli (Ancona, Aosta, Cagliari, Campobasso, Catanzaro, L’Aquila, Perugia, Potenza, Trento, Trieste) e infine nei piccoli centri. Per il medesimo analista, Firenze si è confermata una città dove comprare o affittare casa è sempre più difficile, per la notevole sproporzione tra domanda, eccessiva, rispetto all’offerta ridotta (soprattutto nel centro storico) e i prezzi medi di compravendita e locazione troppo alti rispetto al reddito medio la rendono la meno attrattiva tra le grandi città italiane. A Milano, che resta comunque la città dove gli affitti sono più cari in Italia, l’incremento da febbraio 2023 a oggi è pari all’8,1 per cento, e si è registrato un aumento dell’offerta del +83 per cento, mentre la domanda è calata (-23,7 per cento). Tra i capoluoghi del Sud, Bari ha registrato la maggiore performance (+18 per cento) e a poca distanza di colloca Napoli, il cui delta si ferma a +13 per cento (comunque oltre la media nazionale), con un prezzo medio di 14,2 euro al metro quadro per un immobile in affitto, ma cresce significativamente la domanda: +52 per cento su base annua.

Detti aumenti, come appare evidente, non hanno nulla di artificiale né tantomeno sono il frutto di scelte cervellotiche dei proprietari immobiliari. Confermano piuttosto, e occorre ribadirlo a chiare lettere, che il mercato delle case funziona esattamente come tutti gli altri mercati di beni e servizi. I prezzi che si formano al suo interno sono una costellazione di dati, il cui scopo è essenzialmente di trasmettere informazioni essenziali sulla qualità, la scarsità o l’appetibilità di un prodotto. Caratteristica del prezzo di mercato, come ha insegnato Ludwig von Mises, è di eguagliare la domanda all’offerta, il che porta a interpretare le sue variazioni come segnali delle condizioni di mercato, tant’è che un loro improvviso calo indica un surplus, mentre un aumento segnala una scarsità. In definitiva, i prezzi aiutano a coordinare domanda e offerta, per cui quando la domanda supera l’offerta, i prezzi aumentano, incoraggiando i produttori ad aumentare la produzione. Al contrario, quando l’offerta supera la domanda, i prezzi scendono, spingendo i produttori a ridurre la produzione.

Per quanto riguarda il mercato immobiliare italiano, il rincaro dei canoni di affitto nell’attuale congiuntura è la conseguenza delle difficoltà riscontrate dalle famiglie a finalizzare l’acquisto di case, per la contrazione della loro capacità di indebitamento, cui si è associata la difficoltà di accesso al credito. Determinanti in tal senso sono state l’inflazione, che è cresciuta negli ultimi anni, raggiungendo vette che non si vedevano da molto tempo, e la politica monetaria restrittiva della Banca centrale europea, con un ciclo di dieci rialzi consecutivi dei tassi cominciato a luglio 2022, che ha fatto raggiungere il picco del 4,50 per cento al costo del denaro e causato la triplicazione dei tassi praticati dalle banche sui mutui immobiliari. Ciò ha causato lo spostamento in larga misura della domanda di abitazioni dalle compravendite verso gli affitti (il 7,3 per cento nell’ultimo anno, ha precisato Nomisma), che ha finito per accentuare la pressione sul relativo comparto, la cui offerta è però rimasta sostanzialmente stagnante, in quanto non è aumentato il numero delle nuove costruzioni, ma anzi è diminuito, soprattutto dove se ne avvertiva maggiormente il bisogno, né sono state immesse sul mercato altri immobili rimasti nella disponibilità dei proprietari.

Le ragioni di siffatta condizione dell’offerta vanno ricercate innanzitutto nei condizionamenti legislativi che impongono, mediante i piani regolatori generali, la pianificazione pubblica dei territori, i quali vengono divisi in zone e disciplinati dettagliatamente, persino stabilendo le quantità e i tipi di alloggi che possono essere costruiti, nonché dove è consentito realizzarli. Talvolta, anche impedendo completamente o limitando di costruire su molti siti altrimenti vitali. La zonizzazione è in sostanza un limite indiretto al numero preciso di nuove abitazioni o attività commerciali in un’area, che finisce per rappresentare una riorganizzazione arbitraria dei suoli, rimessa alla politica e agli apparati burocratici e sottratta alle scelte individuali e al mercato. La stessa esprime due forme di controllo qualitativo: entrambe (parzialmente) vietano i nuovi sviluppi immobiliari e li trasferiscono da dove sarebbero più economici, e risponderebbero alle richieste dei consumatori, a dove invece è autorizzata la costruzione; attribuiscono inoltre dei privilegi ai proprietari favoriti dalle scelte operate con gli strumenti urbanistici, che vedono elevato il loro status, a discapito degli altri, nei cui confronti oppongono invece una barriera legale all’ingresso nel mercato e all’utilizzazione più vantaggiosa dei loro beni.

La situazione sarebbe peraltro destinata a peggiorare con programmi di riqualificazione o rinnovamento urbano, che finirebbero per distruggere quartieri consolidati e per determinare un’ulteriore contrazione dell’offerta sia autorizzando la demolizione o la trasformazione di un maggior numero di abitazioni rispetto a quanto ne verrebbero successivamente costruite, sia facendo diminuire gli spazi disponibili e nello stesso tempo crescere i prezzi degli affitti per effetto della sostituzione degli alloggi esistenti con unità di qualità superiore. Tutte cose sulle quali mantengono immutata la loro attualità e rilevanza gli illuminanti insegnamenti di Murray Newton Rothbard, che ha scritto: “La pianificazione urbana ha controllato e regolato le città. I piani regolatori hanno limitato l’utilizzo dei terreni e la costruzione delle case con innumerevoli restrizioni. Le tasse sulla proprietà hanno paralizzato lo sviluppo urbano e costretto molti ad abbandonare le case. I regolamenti edilizi hanno limitato la costruzione delle abitazioni, rendendola anche più costosa. Il rinnovamento urbano ha fornito cospicui sussidi agli addetti allo sviluppo degli immobili, ha comportato la demolizione di appartamenti e negozi, ridotto l’offerta di alloggi e incrementando la discriminazione razziale. Ingenti prestiti governativi hanno generato la cementificazione delle periferie. I controlli sugli affitti hanno creato carenza di appartamenti e ridotto l’offerta di alloggi residenziali”.

Altri condizionamenti di non minore importanza, che nondimeno coesistono con quelli prodotti delle scelte urbanistiche o si aggiungono ad esse, derivano dal regime di controllo degli affitti, sia per esigenze abitative sia per usi diversi, commerciali, artigianali, e dalla tassazione patrimoniale sugli immobili, che rendono non adeguatamente profittevole la fornitura di nuove case. In proposito, vi è da considerare che gli imprenditori (cioè i produttori) immettono beni e servizi sul mercato solo se possono essere prodotti a un costo inferiore al prezzo di mercato. Questi, gli affitti, contrariamente alle credenze non scientifiche di molti anticapitalisti, non sono determinati dal costo di produzione di un bene o servizio, tantomeno dai capricci o dall’avidità dei medesimi produttori, che vorrebbero realizzare profitti elevati. In realtà, i produttori sono alla mercé dei conduttori/consumatori che, in assenza di controlli sui prezzi, determinano il livello dei prezzi al quale gli imprenditori devono produrre alloggi prima di poter aspettarsi di realizzare profitti.

Così stando le cose, è di evidenza lapalissiana che solo l’aumento dell’offerta di immobili può dare slancio al mercato degli affitti, calmierando i prezzi e soddisfacendo le domande di un numero maggiore di conduttori. Occorre, però, abbandonare le ormai desuete politiche interventiste, che si sono rivelate fallimentari e dannose in modo particolare per gli inquilini, oltre che per l’economica nel suo complesso. La strada maestra da percorrere è indiscutibilmente quella tracciata dal Giappone, con la deregolamentazione dell’urbanistica, e dall’Argentina, con la completa liberalizzazione degli affitti. Tertium non datur.

Aggiornato il 19 aprile 2024 alle ore 13:10