Non si vive di solo green

La storia narra che, nel 1933, all’atto della fondazione dell’Iri (Istituto per la ricostruzione industriale) alla domanda che Alberto Beneduce, primo presidente dell’Istituto, rivolse a Benito Mussolini su quale dovesse esserne la missione, il Duce rispose: “Fate qualcosa per queste imprese”. I tempi cambiano, gli scenari macroeconomici si evolvono, ma per quanto la realtà si mostri sempre più complessa, l’obiettivo fondamentale rimane il medesimo: fare qualcosa per le imprese. Anche in tempi di Covid la musica non cambia: c’è bisogno di dare una mano al sistema industriale nazionale a ripartire.

Il Conte bis non è stato in grado di reggere l’impatto della crisi economica che si è abbattuta sul nostro Paese, a rimorchio di quella sanitaria. Tocca a Mario Draghi mostrare il suo valore politico. Il piano vaccinale conta e non è questione trascurabile. Tuttavia, da solo non basta a cavarci fuori dai guai. Occorre riavviare il motore della ripresa economica, non perché porti la macchina industriale nazionale fuori rotta o la consegni a indesiderate guide straniere. C’è bisogno sì di ripartire, ma con le idee chiare su dove si voglia andare. Non sarà, però, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che si sta mettendo a punto al Mef (Ministero dell’economia e delle finanze) per ottenere gli agognati 209 miliardi di euro del programma europeo Next Generation Eu, la bacchetta magica che salverà l’apparato produttivo italiano.

È solo una parte della strategia per il rilancio. Come lo è lo sblocco della “sblocca cantieri” (la Legge 14 giugno 2019, numero 55, per il riavvio semplificato delle opere pubbliche finanziate), ferma al palo dalla sua approvazione. Ciò che serve ora, non domani, è che il Governo risolva le centinaia di crisi industriali aperte, la maggior parte delle quali maturate ben prima dello scoppio della pandemia, così da arrestare l’emorragia di Pil e di posti di lavoro che sta dissanguando l’economia nazionale. Dovrebbe essere compito del ministero dello Sviluppo economico. A dirigerlo, col Governo Draghi, c’è il leghista Giancarlo Giorgetti. Che potrebbe essere l’uomo giusto al posto giusto, se non fosse che è come un pugile costretto a combattere con un braccio legato dietro la schiena. L’handicap, che costringe Giorgetti ad affrontare le sfide che si profilano in condizioni di oggettiva minorità, ha dei responsabili di cui si conoscono nomi e cognomi. Si chiamano Luigi Di Maio, Stefano Patuanelli e Movimento Cinque Stelle che, all’epoca dei Governi Conte e dell’occupazione grillina del Mise, hanno operato il sistematico svuotamento delle competenze stratificate nella struttura strategica della Pubblica amministrazione.

Adesso però non serve piangere sul latte versato: il Paese attende risposte concrete e non stucchevoli lamentazioni. Da dove si comincia? Non dal correre su e giù per l’Italia a tappare buchi, perché non è il disperdersi dietro alle singole urgenze la madre di tutte le battaglie per la ripresa. La chiusura dei tavoli di crisi ha la sua importanza ma, parallelamente, bisogna risalire a monte degli incagli che frenano l’espansione della produzione industriale tradizionale, assicurando che le fonti di approvvigionamento delle materie prime industriali e dei semilavorati, necessari al mercato interno, siano liberate e comincino a erogare con regolarità. Occhio agli abbagli! Si sta puntando (troppo?) sul digitale, sulle nuove tecnologie connesse all’intelligenza artificiale, sull’economia circolare e sulla green economy, come se tutto il futuro produttivo dipendesse da quell’unica filiera dell’innovazione tecnologica.

Fino a prova contraria, per buona parte dei comparti manifatturieri c’è bisogno di acciaio. Senza un’adeguata offerta di un prodotto d’eccellenza del made in Italy, l’industria italiana non va da nessuna parte. I numeri dello scorso anno sono impietosi. A fronte di 23 milioni 192mila tonnellate di acciaio prodotto nel 2019, lo scorso anno se ne registrano 20 milioni 402mila tonnellate, con un calo rispetto al 2019 del 12,03 per cento (fonte: Area statistica Federacciai). In Europa, nei primi 11 mesi del 2020, non è andata meglio: il calo medio rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente è stato del -14,6 per cento. Con picchi di crollo in Francia (-22,8 per cento) e in Spagna (-21,7 per cento, fonte: Area statistica Federacciai). La crisi dell’acciaio evoca la bizzarra vertenza dell’ex Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa. Bizzarra perché raramente la politica, con le baruffe tra i partiti che riprendono specularmente quelle tra istituzioni centrali e periferiche dello Stato, è riuscita a ingarbugliare le cose. Il ministero dell’Economia e finanze ha sbloccato 400 milioni di euro per dare seguito all’accordo, firmato il 10 dicembre 2020, dall’Amministratore delegato di Invitalia e da Arcelor Mittal Holding srl e Arcelor Mittal Sa in funzione dell’aumento di capitale di AmInvest Co Italy Spa, rinominata Acciaierie d’Italia Holding.

A fronte del versamento, il socio pubblico acquisisce una partecipazione al capitale sociale pari al 38 per cento e diritti di voto pari al 50 per cento. L’accordo prevede che, entro maggio 2022, in seguito a una successiva iniezione di liquidità da parte dello Stato per 680 milioni, la quota societaria di Invitalia salirà al 60 per cento, contro il 40 per cento mantenuto da Arcelor Mittal. L’investimento non dovrà essere l’ennesimo buco nero, che inghiotte risorse pubbliche ma dovrà servire a dare allo Stato un potere di controllo sulle policies aziendali che il socio straniero avrà intenzione di attuare e, ove possibile, correggerne le scelte distorsive già in atto.

L’altro ieri il Senato ha approvato unitariamente una mozione (primo firmatario Adolfo Urso-Fratelli d’Italia) che impegna il Governo, in primis, “a realizzare un piano strategico per la siderurgia, che definisca nel dettaglio il fabbisogno di acciaio nel nostro Paese, le condizioni di mercato su in cui i produttori devono muoversi, prevedendo la ristrutturazione del comparto, in un’ottica di maggiore competitività, ma anche per una specializzazione sugli acciai di qualità a beneficio di filiere ad alto valore aggiunto, come l’industria elettrotecnica e la meccanica di precisione, di cui l’Italia è leader”.

È un bene che il Parlamento abbia puntato i fari su un problema di vitale importanza per il Paese. Il progetto di filiera della siderurgia, se vi sarà, dovrà mettere in rete il sito di Taranto con gli altri due poli di rilevanza nazionale della ex-Lucchini di Piombino (della galassia del conglomerato indiano Jsw Steel-Gruppo Jindal) e degli Acciai speciali di Terni (Ast). Per implementare un piano organico di affiancamento dell’elettrosiderurgia alle produzioni a “ciclo integrale” occorrono ingenti risorse pubbliche. La buona notizia è che la Commissione dell’Unione europea ha raccomandato di non riattivare le regole su bilanci e deficit, previste dal Patto di stabilità, per tutto il 2022. Ciò vuol dire che si potrà fare deficit a patto però che sia finalizzato agli investimenti. Agire sulla ripresa attraverso la leva finanziaria servirà ad ostacolare gli appetiti degli investitori esteri interessati a rilevare le acciaierie italiane per chiuderle, eliminando dal mercato una scomoda concorrenza, invece che potenziarne le capacità produttive. In proposito, sarebbe vitale che il Governo ripristinasse la clausola del “golden power”, introdotta con il decreto-legge “Liquidità” del 8 aprile 2020, numero 23 per bloccare anche nel settore della siderurgia scalate straniere ostili, ma cessata nei suoi effetti il 31 dicembre 2020 e non rinnovata dal Governo Conte bis.

Oggi che la pandemia ha fatto cadere in tutta Europa – Germania compresa – il tabù della partecipazione dello Stato al capitale di rischio delle aziende di maggiori dimensioni, sarebbe auspicabile l’impiego di denaro pubblico per difendere “l’italianità” delle produzioni strategiche. Se non lo comprendiamo da soli guardiamo alle esperienze di altre potenze industriali, come la Francia, dove nelle grandi imprese ritenute politicamente sensibili lo Stato difende l’interesse nazionale intervenendo con la propria presenza a influenzarne le scelte strategiche. Se Giorgetti coglierà il segnale inviatogli dal Parlamento, riuscendo nell’impresa del rilancio della siderurgia nazionale, per la Lega avrà avuto un senso stare al Governo insieme ai nemici di là dalla stretta contingenza pandemica. In caso contrario, per Matteo Salvini e compagni sarà come aver perso un treno che non passa più.

Aggiornato il 19 aprile 2021 alle ore 09:21