Riforme e Pnrr: gocce di latte nel caffè

Il Piano nazionale di ripresa è composto da due grandi sezioni: una dedicata alla spesa, l’altra alle riforme di fisco, mercato, giustizia e Pubblica amministrazione.

La parte del Piano sulla spesa riuscirà probabilmente a svecchiare alcune cose, dai computer della Pubblica amministrazione, alle strade ferrate; consentirà di sistemare fiumi e ponti, scuole e università, ospedali e carceri; di stendere cavi e fibra, di installare pannelli solari e sviluppare la ricerca sulle energie rinnovabili. Fin qui opere necessarie o almeno utili: interventi di manutenzione straordinaria e ammodernamento di un Paese vecchio, specialmente al meridione.

L’altra parte del Piano, quella dedicata alle riforme, invece, lascia l’agro in bocca, tanto è deludente. Le proposte appaiano come gocce di latte nel caffè. Poca cosa, piccole macchie nel “nero più nero che c’è”, come diceva una canzonetta degli anni Settanta.

Nessuna di esse si può definire strutturale, di sistema, e nessuna si può immaginare realmente capace di rivoltare come un calzino economia, produttività e concorrenza; fisco; giustizia e ordinamento giudiziario e quello giuridico; burocrazia e regole. Proprio quello, invece, di cui il Paese avrebbe bisogno, perché è intorno a questi quattro grandi pilastri che si gioca la partita dei prossimi venti o trent’anni.

La timidezza di questa parte del Piano si trasformerà quasi certamente in un freno alla crescita. Mitigherà fortemente gli effetti che la spesa potrebbe produrre anche e soprattutto nel medio e lungo periodo, esaurita la fase galvanizzante della spesa stessa.

Quel che accadrà sul versante delle riforme, quasi certamente, sarà questo: qualche tassa in più sulla casa o sul patrimonio, qualche aliquota dell’Irpef più bassa e qualcuna più elevata, più magistrati e cancellieri, più digitalizzazione e meno carta, più impiegati pubblici e concorsi semplificati, qualche cavillo normativo in meno e qualche scorciatoia nelle procedure, qualche filtro giudiziario in più, spruzzi di semplificazione qua e là, ma i gangli strutturali dei quattro pilastri non cambieranno nella sostanza.

Nessuna novità epocale arriverà, men che meno arriverà una svolta liberale. Forse le sole pennellate liberali riguarderanno la concorrenza. Le vuole la Commissione europea per proteggere più intensamente il mercato comune e dunque il Parlamento italiano, alla fine, qualcosa dovrà concedere se vorrà portare i soldi a casa. Pennellate sbiadite, comunque, almeno per quello che si è capito finora.

Il Governo avrebbe potuto fare di più? Avrebbe potuto dare, finalmente, una scossa “rivoluzionaria” al Paese. Va detto che Mario Draghi guida uno strano governo, politico e tecnico al tempo stesso, con dentro sinistra, centro e destra, statalisti e liberisti, europeisti e sovranisti. Non è seriamente pensabile che un governo così composto possa proporre riforme in grado di scuotere le fondamenta. La timidezza delle proposte è dunque consequenziale alla innaturale composizione della maggioranza di governo.

E il Parlamento? Difficile credere che da esso arrivi la scossa. Composto prevalentemente da forze populiste, alcune legate a fil doppio al socialismo reale, alla logica dell’assistenza, al giustizialismo da avanspettacolo, non avrà né la spinta ideale, né quella progettuale per migliorare il Piano. E poi non può avere, oggettivamente, la coesione politica sufficiente per indicare una strada definita sulla quale portare il Paese.

Anziché cambiare miscela per fare un buon caffè, allora, sceglierà di mantenere la vecchia mistura. Anziché cambiare tazzina, sceglierà di continuare ad usare quella vecchia e sbeccucciata, aggiungendo solo qualche goccia di latte per stemperare il “nero più nero che c’è”.

Fino a quando?

(*) agiovannini.it

Aggiornato il 11 maggio 2021 alle ore 09:14