Io sto con Francesca e Marco

venerdì 14 maggio 2021


La “Francesca” di cui parlo è Francesca Totolo, ricercatrice indipendente in tema di immigrazione, geopolitica e analisi di dati; reporter e saggista, scrive per il quotidiano “Il Primato nazionale” vicino al gruppo di estrema destra “Casapound”. “Marco” è Marco Gervasoni, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli studi del Molise; collabora con numerose riviste scientifiche e come opinionista scrive per alcune note testate giornalistiche. I due, da qualche giorno sono legati da un comune destino: sono indagati insieme ad altre nove persone nell’ambito di un’inchiesta condotta dalla Procura della Repubblica del Tribunale di Roma per i reati di offesa all’onore e al prestigio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (articolo 278 Codice penale), e per istigazione a delinquere (articolo 414 Codice penale). Entrambi hanno ricevuto la visita notturna dei Ros (Raggruppamento operativo speciale) dei carabinieri che hanno perquisito le rispettive abitazioni e sequestrato i pc.

Gli inquirenti cercano prove più solide di un loro coinvolgimento in attività eversive che non siano i tweet e i commenti rilasciati su Facebook. Ma i due sono comunque sospetti perché hanno un “vizio”, come lo definisce il “maestro” Vittorio Feltri, una sorta di difetto di fabbrica: non sono di sinistra. Ragione per la quale tutto ciò che scrivono viene scandagliato dai padroni del “pensiero unico” con una lente d’ingrandimento che resta nel cassetto quando, all’opposto, a dire cose sgradevoli sono quelli che hanno in tasca l’attestato di appartenenza alla casta progressista, multiculturalista e sinistrorsa che sciama nel nostro Paese.

Ma cosa avrebbero fatto di tanto terribile i due da essere sbattuti sulle prime pagine dei giornali da mostri di giornata? Offeso il prestigio del presidente della Repubblica. Gli hanno forse dato del “cor...to”? Perché se l’avessero fatto, sarebbero davvero responsabili degli insulti che vengono loro attribuiti. No, si sono limitati a criticarlo, a contestare più o meno coloritamente le sue scelte. In una parola: hanno espresso giudizi critici. E tanto basta per mandarli a processo con il rischio di finire in carcere per cinque anni (tale è la pena edittale prevista dall’articolo 278 del Codice Penale)? Siamo in Italia, in un tempo in cui la democrazia sta scivolando pericolosamente verso la dittatura del politicamente corretto.

Il segnale inquietante è dato dalla sostanziale reintroduzione dei reati d’opinione. Certe cose non si possono più dire se non si vuole finire nei guai. Sostenere che Sergio Mattarella sia un capo dello Stato di parte? Offesa al prestigio del presidente della Repubblica. Dichiararsi contro l’invasione migratoria dei clandestini? Vuol dire essere razzisti. E si rischia la galera solo per averli definiti “clandestini”. Dichiararsi contrari al disegno di leggeZan”, affermare di essere per la famiglia composta da genitori di diverso sesso e non esprimersi a favore della delirante teoria del gender? Colloca d’ufficio nella blacklist degli omotransfobici. Sostenere che in Italia tra il 1943 e il 1945 sia stata combattuta una guerra civile conferisce, honoris causa, l’epiteto a vita di “sporco fascista”.

Personalmente conosco ciò che i due sostengono nei loro articoli perché li leggo. E spesso condivido ciò che affermano. Si può discutere sul modo con cui talvolta esprimono il loro pensiero ma non censurarli e indagarli per il contenuto dei loro scritti. D’accordo, siamo stati noi della destra liberal-conservatrice a ripetere fino alla nausea il concetto crociano della forma che è sostanza, ma non abbiamo mai detto, o pensato, che la forma potesse essere sostanza di reato. D’altro canto, non è una novità che, specie in letteratura, un linguaggio ruvido veicoli un’alta qualità di pensiero. Se Louis-Ferdinand Céline avesse usato un tono più felpato nel suo “Viaggio al termine della notte”, il romanzo sarebbe stato ugualmente il capolavoro letterario che è? Viene il sospetto che, oggi, un Céline privo della certificazione di politicamente-corretto, non avrebbe potuto neanche cominciare a scrivere la sua opera maestra: l’avrebbero fermato prima con la censura preventiva.

Ora comprendo il perché, in decenni trascorsi di vita democratica e repubblicana, non si sia fatto nulla per abolire una norma oppressiva quale quella contenuta nell’articolo 278 del Codice penale, retaggio, come scrive Andrea Venanzoni su Atlantico,chiaramente di una epoca tendenzialmente autoritaria, e non solo perché il codice penale è di epoca fascista: ma perché il capo dello Stato cui faceva riferimento l’articolo quando venne inserito nel testo codicistico era quello del sovrano”. Colpa grave delle maggioranze democratiche del tempo che pur potendola cassare dal nostro ordinamento giuridico non l’hanno fatto, in preda a un atavico complesso di colpa verso la (fasulla) superiorità morale della sinistra. La stessa sindrome di Stoccolma che, oggi, porta ambienti accreditati della destra plurale a essere incomprensibilmente tiepidi, se non a tacere del tutto, nel dare solidarietà a due intellettuali ignobilmente perseguitati per le loro idee.

Riguardo alla posizione di Marco Gervasoni, in particolare, sorge un dubbio: coloro che lo hanno osannato in passato per essere uno dei pochi intellettuali disposti a non celare la matrice conservatrice del suo pensiero, distante anni luce dagli spiriti animali suprematisti e antisemiti, l’hanno mai letto qualche suo scritto? Perché se l’avessero fatto probabilmente oggi ritroverebbero la favella per ergersi a difensori della sua libertà e di quella di Francesca Totolo. Il loro silenzio complice facilita il passaggio concettuale-giudiziario dall’offesa al prestigio del capo dello Stato all’attacco all’intangibilità del pensiero “corretto” dominante. La prova? Nel decreto che dispone il sequestro di sistemi telematici si chiede anche la verifica e il sequestro di conversazioni avvenute tramite WhatsApp. Ne consegue che come fonte di prova per un supposto reato di vilipendio valga lo scambio di messaggi privati. Tradotto: rispondiamo tutti non solo di ciò che asseriamo pubblicamente ma anche di ciò che diciamo in una conversazione privata.

Ma Gervasoni, questa è l’ipotesi accusatoria, con le sue espressioni forti avrebbe istigato altri a delinquere facendo uso di parole sconce. E chi sarebbero questi altri, conculcati dalla tastiera criminale di Gervasoni? I suoi follower sulle reti social. Se non ci fosse di che preoccuparsi, verrebbe voglia di sommergere questa ridicola farsa con una fragorosa risata. Invece, bisogna andare cauti, perché si avverte nell’aria un debortoliano odore stantio di regime. E i “compagni” non scherzano affatto quando puntellano taluni deliri giudiziari con la costruzione demagogica dello stereotipo del reietto da emarginare e da colpire senza pietà nei suoi non più inviolabili diritti di libertà. Del resto, non era forse il “compagno” Mao Tse-tung, venerata icona della sinistra radicale del Novecento, che diceva: “Colpirne uno per educarne cento”? Tutto chiaro: messaggio ricevuto.

A Gervasoni e Totolo il colpo di bastone, mentre a tutti gli altri, compresi molti miei colleghi de L’Opinione che, come me, scrivono cose spesso consonanti con le posizioni critiche dei due indagati, valga d’ammonimento: attenti a ciò che dite perché potreste essere i prossimi. Basta questo per rimetterci in riga? Personalmente rispondo di no. Faccio parte di quella arrugginita classe di residuati delle battaglie ideologiche degli anni Settanta-Ottanta, cresciuta all’ombra dello sferzante aforisma di Ezra Pound: “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui”, nient’affatto disponibile a mollare la presa proprio all’approssimarsi del fine corsa. Personalmente, continuerò a scrivere di come la penso sull’operato politico di Mattarella e sul pensiero unico politicamente corretto che continuo a ritenere, per dirla alla Emmanuel Macron, vomitevole. Lo devo anche a Marco e a Francesca. E pazienza se dovrò guardarmi dal fare indagatore del vigile urbano del mio paesello. Il compianto Giorgio Gaber non la diceva giusta quando cantava la libertà non è star sopra un albero... libertà è partecipazione. Si può stare anche appollaiati sopra un albero se servisse a dire ciò che si pensa senza temerne le conseguenze.


di Cristofaro Sola