Keep Calm: non sarà un pallone a salvare l’Italia

La Nazionale italiana di calcio è sul tetto d’Europa. Come non esserne compiaciuti. Ma una coppa, per quanto prestigiosa, non può essere scambiata per il manto della misericordia: non protegge dalla realtà. E qual è la realtà, al netto della bella impresa degli azzurri a Londra? È quella di un Paese messo in ginocchio da anni di politiche pubbliche sbagliate sul fronte dell’economia per le quali adesso paghiamo un conto salatissimo.

Il licenziamento via mail dei 422 dipendenti della Gkn Driveline di Campi Bisenzio (Firenze), a cui si aggiunge la crisi dell’indotto, ne è la plastica dimostrazione. La Gkn è una multinazionale attiva nel settore dell’automotive. Il core business dell’azienda è la produzione di componenti per trasmissioni, sistemi di trazione integrale e sistemi e-Drive (tecnologie di azionamento elettrico) per l’industria automobilistica. Fondata in Gran Bretagna nel 1900 come Great Keen & Co. – dalla fusione di Guest & Co. e The Patent Nut & Bolt Co. – la società è stata rilevata nel marzo 2018 per 8 miliardi di sterline dal gruppo Melrose Industries – azienda britannica specializzata nell’acquisto e nel miglioramento di attività poco performanti – di cui è divenuta ramo sussidiario.

Vista la dislocazione planetaria degli impianti della multinazionale non si può pensare a un fulmine al cielo sereno nel caso dei licenziamenti di Campi Bisenzio. La struttura fiorentina aveva il destino segnato ben prima della pandemia. Nel 2018, Melrose ha approvato un piano d’investimenti nel segmento Gkn Automotive per migliorare l’espansione della capacità presso l’impianto di produzione di motori elettrici e per la trazione integrale di Brunico, in Val Pusteria; le restanti risorse della pianificazione sono state destinate ad aumentare la capacità produttiva in vari stabilimenti negli Stati Uniti, in Messico, in Cina e in Giappone. Ci sarebbe stato tutto il tempo per riflettere su un progetto di riconversione del sito toscano. Non era necessaria la carognata della mail a freddo il cui risultato è stato di aver gettato nella disperazione le famiglie dei lavoratori messi sul lastrico dalla sera alla mattina, senza neanche uno straccio di paracadute sociale per attenuare il contraccolpo della perdita occupazionale.

Il caso è un pugno allo stomaco di coloro che hanno storicamente sostenuto la necessità di lasciare libere le imprese di creare ricchezza, svincolandole dai lacci e lacciuoli dell’opprimente burocrazia e dello strapotere sindacale nel condizionare le strategie imprenditoriali. Fa bene il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, a dire che “noi vogliamo il West, non il Far West”. Perché questi comportamenti imprenditoriali sono appropriati a contesti da legge della giungla, dove il più forte divora il più debole. Se si entrasse in tale spirale si finirebbe col desiderare che uno ancora più grosso (lo Stato) usasse la medesima brutalità nel prendersela con l’aggressore. Come non ne usciamo se si specula sul caso Gkn per asserire che lo sblocco dei licenziamenti sia stata un’iniziativa sbagliata. Non è che si può fare come è stato con la pandemia: per evitare il diffondersi del contagio si sono rinchiusi gli italiani. Bisogna che si prenda il toro per le corna.

Se è vero che “abbiamo aperto le porte a predatori che promettono investimenti e sviluppo ma in realtà saccheggiano territori”, come ha dichiarato al quotidiano “Il Secolo XIX” il presidente di Confartigianato Firenze, Alessandro Sorani, è altrettanto vero che lo sviluppo della globalizzazione ha impresso un dinamismo alle manifatture che non può essere in sé demonizzato. C’è un problema in Europa legato alle delocalizzazioni intracomunitarie – è il caso della Gkn – che si chiama dumping fiscale e salariale che va affrontato e risolto in chiave politica. L’Unione europea in teoria vorrebbe essere il paradiso in terra, nella realtà è un ring dove a dispetto delle tante regole e regolette che imbrattano piramidi di carta, ce n’è una che prevale su tutte e che recita: è consentito colpire sotto la cintola. Hanno un bel dire i fan del filo-europeismo ma fin quando lo Stato più piccolo può fregare gli altri aprendo a tassazioni irrisorie per le multinazionali alla stregua dei peggiori Stati canaglia che infestano il consesso delle nazioni nessun federalismo sarà possibile.

Nondimeno, è necessario che il Governo italiano, baciato da un momento di fortuna, colga l’occasione per avviare un confronto in sede comunitaria sul riequilibrio dei rapporti tra Stati membri. Ma questo è solo un lato del problema. L’altro riguarda direttamente il sistema-Italia. Se non si vogliono fornire alibi ai “turbo-capitalisti” per saccheggiare il territorio industriale nostrano bisogna che lo Stato intervenga sul lato dell’offerta, attraverso la leva della fiscalità generale. In Italia il lavoro costa troppo a causa della tassazione insostenibile. Tra il 2019 e il 2020, il cuneo fiscale è sceso sì dal 47,9 per cento al 46 per cento, ma si è attestato a 11,4 punti sopra la media Ocse, che è stata del 34,6 per cento (fonte: Report Taxing Wages dell’Ocse). Un’enormità se si considera che quello italiano è il quarto cuneo fiscale più alto tra i 34 Paesi dell’area Ocse, dopo il Belgio (51,5 per cento), la Germania (49 per cento) e l’Austria (47,3 per cento), con la non trascurabile differenza di qualità che corre tra il Welfare e i pubblici servizi dei primi tre Paesi e i nostri.

Il rapporto dell’Ocse rileva che “il costo del lavoro in Italia è di circa 49mila euro per ogni singolo lavoratore, sopra la media dell’area Ocse (quasi 45mila euro), al diciannovesimo posto tra i Paesi più avanzati. Vogliamo che le imprese straniere presenti in Italia non scappino via con la cassa? Diamo loro un incentivo abbattendo vigorosamente il costo del lavoro. La dirigenza di Gkn ha giustificato l’iniziativa dei licenziamenti con una previsione, al 2025, di dimezzamento del fatturato del 48 per cento rispetto ai livelli di fatturato del 2019 a causa della contrazione dei volumi produttivi dei veicoli leggeri.

Se neanche la riduzione del costo del lavoro dovesse bastare la strada alternativa sarebbe quella della riqualificazione professionale dei lavoratori da coinvolgere nella riconversione del sito produttivo. Non tirano più i sistemi assiali per le auto? Ok. Allora si impegnino gli operai a fare stampanti “3D”. Non è uno sfottò ma una cosa seria. La Gkn Powder Metallurgy, società del gruppo, ha stretto partnership con altre aziende per aiutare a sviluppare un processo di stampa “3D” laser in metallo utilizzando la propria polvere di acciaio per la produzione additiva proprietaria. Il processo, quando completamente sviluppato e ottimizzato, dovrebbe ridurre i tempi di produzione fino al 70 per cento e ridurre i costi di produzione complessivi fino al 50 per cento (fonte: Automotive Industry Portal Marklines-Information Platform).

Perché non farlo fare a Campi Bisenzio? Che in giro per il mondo della manifattura ci siano inqualificabili canaglie non ci piove. Ma non possiamo piangerci addosso cullandoci in un vittimismo che alla fine non conosce altri sbocchi se non l’assistenzialismo di Stato. Alla sfida lanciata da Gkn, come da tante altre realtà industriali in procinto di abbandonare l’Italia, si risponde con la politica che ha il dovere di reagire alzando l’asticella della ripresa produttiva. Come? Impiegando tutte le risorse disponibili per favorire solidi investimenti e introdurre efficaci stimoli normativi alla ripresa e allo sviluppo dell’imprenditorialità. Su tali presupposti sarà possibile chiamare i risparmiatori a scommettere. La grande liquidità accumulata dagli italiani nel periodo pandemico potrebbe essere anche parzialmente indirizzata agli asset della manifattura nazionale associando una componente azionaria al portafoglio individuale e delle famiglie. Magari la nostra bella Italia non tornerà a essere il paradiso dei nostri ricordi d’infanzia, ma almeno non sarà l’inferno nel quale rischiamo di precipitare per aver imboccato la strada della globalizzazione dal verso sbagliato.

Aggiornato il 16 luglio 2021 alle ore 09:11