Il dovere di solidarietà sociale

A proposito di green pass, libertà e limitazioni, esiste un dovere individuale di solidarietà sociale?

Certo che esiste ed esiste per Costituzione. Lo stabilisce l’articolo 2: “La Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale”.

Questo dovere sta prima dell’obbligo vaccinale che il Parlamento potrebbe disporre in forza del secondo comma dell’articolo 32 della stessa Costituzione. La legge, infatti, potendo stabilire trattamenti sanitari obbligatori, potrebbe senz’altro imporre l’obbligo di vaccinazione a tutta la popolazione o ad alcune sue categorie, nel rispetto della dignità umana, della ragionevolezza e della graduazione dei rischi individuali e collettivi, secondo una scala probabilistica degli eventi.

Il dovere di solidarietà sociale, però, non vive rinchiuso nella Costituzione, non vive dentro le sue pagine impolverate ma fuori da essa, perché sta prima di essa, sta prima del diritto. Sarebbe un errore ridurre quel dovere a un semplice vincolo giuridico. Lo è, intendiamoci, e dunque le attuali regole sul green pass trovano in esso sicura copertura, ma non è solo questo.

È prima di tutto una regola valoriale sulla libertà. Sì, sulla libertà, vista da una prospettiva diversa da quella individuale. Lo spiegò in parole semplicissime Piero Calamandrei nel suo famoso “Discorso sulla Costituzione”. La Costituzione, disse, è laffermazione solenne della “solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti”.

La libertà di convivere ordinatamente, nel rispetto reciproco, per il bene comune, è la libertà che sta scritta nel dovere di solidarietà sociale, che sta prima e oltrepassa la lettera della legge. Questo dovere non schiaccia le libertà dei singoli, ma le ordina a garanzia dell’intera collettività. È un dovere valoriale sempre valido, ma ancor di più quando l’eccezionalità degli eventi storici lo impone.

E i diritti, allora, dove li mettiamo, potrebbero replicare i contestatori delle piazze? L’autodeterminazione non può essere calpestata, potrebbero continuare a gridare, come in effetti hanno fatto in queste ore, sebbene talvolta utilizzando immagini e frasi invereconde, offensive della storia e della vita di chi quella storia l’ha subita. Ma al di là di queste manifestazioni del “non pensiero”, cosa rispondere a chi pacificamente e nel rispetto delle regole democratiche richiede il riconoscimento dei diritti individuali?

La risposta sta in poche parole, che possono apparire ruvide e dal sapore agro, ma che portano con sé il bagaglio della storia. Nessuna comunità può sopravvivere, se chi la compone non rinuncia ad una porzione del proprio “io” a favore del comune “noi”.

Non è retorica questa, non è moralismo da quattro soldi, non è la predica del Venerdì santo e men che meno è un discorso anti-liberale. Piuttosto è la rappresentazione perfino banale delle regole sulla convivenza volte a garantire continuità alla comunità stessa, la quale sopravvive e deve sopravvivere ai singoli. Legge, questa della sopravvivenza, apparentemente crudele, cinica, ma che è una legge da tempo di guerra, come tale imperitura. E oggi stiamo vivendo, proprio, questo tempo.

Quando sui balconi o negli stadi si canta a squarciagola il nostro inno e con la mano sul cuore diciamo “stringiamci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”, che significato pensiamo di dare a queste parole? Pensiamo che siano un invito a fare ognuno quel che più gli aggrada, a dispetto degli altri e della collettività, che siano un invito a lasciare andare la barca, “fin che la barca va”?

Aggiornato il 27 luglio 2021 alle ore 09:14