Riforma del processo penale: se il Parlamento non agisce, parli il popolo

Il Consiglio dei ministri ha approvato il testo di riforma del processo penale, che ora passa all’esame del Parlamento. Tra le misure che meritano di essere ricordate, ci sono gli interventi sui presupposti dell’azione penale e sulla fase delle indagini preliminari, nonché sull’introduzione di limitate ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado, sull’estensione dell’ambito di applicazione della causa di non punibilità e sull’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento. La novità senza dubbio più rilevante è quella della cosiddetta “improcedibilità” del giudizio di impugnazione per superamento dei termini di durata massima del processo, con cui il Governo ha sostanzialmente superato lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado (tanto di assoluzione, quanto di condanna) voluto dal Governo Conte I, archiviando così l’idea del “fine processo mai” e ricostituendo una garanzia del diritto (costituzionalmente rilevante) alla ragionevole durata del procedimento penale.

Il testo presentato dal Governo è l’esito di un processo di mediazione tra le posizioni che la maggioranza parlamentare che lo sostiene esprime sul tema della giustizia penale. Non è questa la sede per esprimere un giudizio complessivo sulla riforma, che certo ha le sue luci e le sue ombre; tuttavia, non è una sorpresa che nemmeno un asse istituzionalmente autorevole e culturalmente attrezzato, come quello rappresentato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi e dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia sia riuscito a incidere con la giusta decisione sullo stato delle cose. Troppo coriacee sono le resistenze che ostacolano ogni intervento sulla riforma della giustizia: resistenze che, peraltro, non vengono solo dai partiti più schiacciati sulle posizioni giustizialiste, bensì anche (e prioritariamente, come è stato nel caso della “improcedibilità”) da alcuni settori della magistratura, che utilizzano toni lontani da quelli che legittimamente ci si attenderebbe da chi esercita un potere così importante e delicato. 

Si tratta di un copione ormai noto. Lo scivolamento verso tensioni “punitivistiche” dell’ordinamento penale riceve sempre l’entusiastico sostegno dei pubblici ministeri e delle associazioni di categoria dei magistrati, mentre le correzioni costituzionalmente orientate finiscono per essere oggetto di anatemi e catastrofismi che obbligano chi le propone a ripiegare su micro-soluzioni di dettaglio.

Le vicende della riforma Cartabia confermano che due sono le direttive lungo le quali ci si deve muovere. La prima – di lungo periodo – è un riorientamento dei modelli di cultura giudiziaria e di cultura penale “iper-punitivisti” oggi predominanti, come suggerito da Giovanni Fiandaca, anche nell’ottica di una futura affermazione di un paradigma garantista nell’opinione pubblica. La seconda – di breve periodo – è la riforma istituzionale del sistema della magistratura.

A tal proposito, i sei quesiti referendari promossi dal Partito Radicale e dalla Lega costituiscono una occasione preziosa per conseguire, tra le altre cose, la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, un passaggio necessario per assicurarsi che il giudice sia “terzo”, tra accusa e difesa, non solo “soggettivamente” ma anche “oggettivamente”. Una tale distinzione aiuterebbe, peraltro, a distinguere – anche a livello di prese di posizioni pubbliche – i pubblici ministeri dai giudici, al fine di evitare che il credito dell’intera magistratura italiana sia ipotecato dai primi.

Se il Parlamento non agisce, è bene che il popolo italiano – nel cui nome la Giustizia viene amministrata – si assuma direttamente la responsabilità dell’azione.

Aggiornato il 04 agosto 2021 alle ore 10:24