Arrivano i talebani del pacifismo

Lo avevamo già capito durante la stagione infinita della pandemia, ma con la guerra in Ucraina lo Stato di diritto liberale è andato letteralmente a farsi friggere in uno dei suoi principali fondamenti: la responsabilità individuale. Quindi, in questo drammatico frangente, non dobbiamo correre il rischio di diventare russofobici, trattando i concittadini di Vladimir Putin (vero responsabile della guerra in atto) che vivono all’estero come nemici al pari di coloro i quali non si sono voluti vaccinare. In questo senso, il clamoroso licenziamento del celebre direttore d’orchestra russo Valery Gergiev, il quale avrebbe dovuto dirigere “La Dama di Picche” il 5 marzo alla Scala, sembra aver scandalizzato poche persone nel nostro Paese.

Artefice della vicenda il sinistro sindaco di Milano, quel Giuseppe Sala che, durante la pandemia, è rapidamente passato da una posizione aperturista, arrivando ad abbracciare i cinesi lungo i Navigli a un atteggiamento di rigore sanitario di stampo talebano. Sala, sul caso Gergiev, è stato magnifico, se così vogliamo dire. Rispondendo alle domande dei giornalisti, queste sono state le sue parole: “Non credo che ci sarà, penso che a questo punto lo possiamo escludere. Dopo che il teatro gli ha chiesto una presa di distanza dalla guerra, dopo l’aggressione all’Ucraina, il maestro non ha risposto. Io certamente non ho chiesto nessuna abiura però ho sollecitato una presa di distanza dalla guerra, che è una cosa un po’ diversa”.

Dunque, dopo il reato di opinione che è già stato introdotto per alcuni argomenti che il pensiero unico politicamente corretto considera sensibili, come un certo revisionismo storico e il tema spinoso dell’omosessualità, oggi viene sdoganato quello di mancata dissociazione. In tal modo, non solo viene negato a chiunque di esprimere una posizione filorussa, che personalmente non condivido in radice ma che in un mondo libero dovrebbe essere accettata senza conseguenze personali. Qui si nega addirittura il diritto da parte di Gergiev di restarsene in silenzio. E se sul piano giudiziario un imputato ha la prerogativa di tacere in modo che le sue parole non possano essere usate contro di lui, siamo arrivati al paradosso che il riserbo di un artista, già criminalizzato per essere amico di Vladimir Putin, si trasforma automaticamente in una condanna senza appello.

E così come accaduto per la pandemia, in cui abbiamo assistito al linciaggio morale di chi non condivideva in tutto o in parte la linea del Governo, anche in questo caso nel mondo dell’informazione quasi nessuno ha avuto nulla da eccepire. Nemmeno coloro i quali, per anni, ci hanno raccontato che “nessuno doveva toccare Caino” oggi si scandalizzano per la vergognosa criminalizzazione che si sta facendo dei suoi silenti, e presunti, amici.

 

Aggiornato il 10 marzo 2022 alle ore 09:14