Il dovere della verità

Ci sono volute due settimane di guerra per avere una visione nitida della crisi ucraina. Tuttavia, a schiarirsi le idee ha aiutato il crescente distacco degli italiani dalla retorica strappalacrime dei media di casa nostra, i medesimi che non si stracciarono le vesti, nel 1999, quando le forze Nato scaricarono sulle vecchiette e sui bambini di Belgrado 2.700 tonnellate di bombeumanitarie”. É il momento che la realpolitik si riprenda la scena. Lo si deve in primo luogo agli ucraini, sedotti da questo Occidente. È bene che si rappresentino le cose per come sono. Per dirla nella lingua del poker, Vladimir Putin è venuto a vedere il bluff degli statunitensi e degli europei. Avrebbe potuto farlo prima, dopo i fatti di “piazza Maidan”, nel 2014. Ha preferito attendere e assestare il colpo del ko nel momento di massima debolezza dell’Occidente sullo scacchiere geopolitico globale.

Lo abbiamo scritto e lo ribadiamo: siamo graniticamente convinti che vi sia un nesso causale tra la fuga indecente dell’Alleanza occidentale dall’Afghanistan e la decisione di Mosca di saldare i conti con Kiev. Ora è tempo di verità. Sappiano gli ucraini che il blocco occidentale non interverrà al loro fianco contro la Russia di Putin. Non ci sarà la no-fly zone sui cieli dell’Ucraina, perché ciò significherebbe l’ingresso diretto dell’Occidente nel conflitto. Sappiano gli ucraini che dietro la bandiera dell’unità, sventolata dall’Europa democratica nel nome dei sacri principi di libertà e di autodeterminazione dei popoli, si celano frusti egoismi nazionali. Sappiano gli ucraini che la strategia combinata Usa-Ue di sostegno alla resistenza popolare anti-russa, svolta all’insegna del “vorrei ma non posso”, è un’idea bizzarra il cui esito condurrà a cocenti delusioni e fornirà dosi supplementari di dolore e disperazione. Qualcuno in Occidente ritiene che la cronicizzazione del conflitto in Ucraina, alla lunga, condannerebbe la politica espansionista putiniana a un irrimediabile fallimento. Si vorrebbe replicare lo scenario determinatosi, nel 1989, con la sconfitta sovietica in Afghanistan. Va in questa direzione l’iniziativa di Usa e Ue di inviare alla resistenza ucraina armi a corto raggio, come i missili controcarro: sistemi d’arma dotati di testate ad alto esplosivo in grado di perforare le corazze dei carri armati russi e particolarmente idonei a paralizzare le forze nemiche durante le incursioni della guerriglia urbana. Peccato che l’Ucraina – sangue slavo, anima cristiana, cuore europeo – non sia il remoto Afghanistan. E se per gli occidentali l’Ucraina non può essere l’Afghanistan dei mujaheddin, e neppure il Vietnam di Ho Chi-Minh e dei Viet Cong, per il Cremlino, al contrario, l’Ucraina può diventare un’altra Cecenia da radere al suolo.

Putin rifiuta ogni tentativo di mediazione, riservandosi di aprire al dialogo a occupazione completata. Non ha fretta. Il blocco occidentale si è aggrappato alla speranza che l’impatto delle sanzioni economiche varate contro Mosca possa scuotere il potere putiniano provocandone la caduta. Fantasie. I giorni passano e lo “zar” è ben saldo sul trono al Cremlino. La propaganda mediatica ci ha inondato di notizie sui disagi che da ora in avanti subiranno i russi per effetto delle sanzioni, ma tace di quelli molto concreti e immediati che graveranno sulle spalle degli europei e degli italiani in particolare. Oltretutto, la strada del ricorso alle sanzioni non è il “pozzo di san Patrizio”. Dispiegato da subito il massimo potenziale di fuoco su questo terreno, non è che agli Stati energivori dell’Unione europea, se si esclude la scelta suicida di seguire gli Stati Uniti nell’embargo delle forniture di gas, petrolio e carbone dalla Russia, restino molte altre leve sanzionatorie da azionare senza che si concretizzi il temuto effetto boomerang.

Come se ne esce? Per come sono andate avanti le cose, l’unica via d’uscita è la presa d’atto della realtà. Bisogna concedere a Putin gli obiettivi non negoziabili che hanno motivato l’invasione: una soluzione finlandese di neutralità ed equidistanza securitaria dell’Ucraina da inserire in Costituzione (modello Austria) e da assicurare mediante la formale rinuncia in perpetuo all’adesione alla Nato; se non l’indipendenza, almeno un’autonomia amministrativa rafforzata alle autoproclamate Repubbliche separatiste del Donbass; la legittimazione internazionale dell’annessione della Crimea alla Federazione Russa. Non è che basterà, quanto meno sarà sufficiente per far ripartire un vero negoziato di pace.

Occorre però una riflessione approfondita sul modello di negoziato da adottare. Accordi ristretti a pochi attori, come è stato con il “formato Normandia” che limitava la trattativa a solo quattro soggetti (Russia, Ucraina, Francia, Germania), si sono mostrati fallimentari. Bisogna tornare allo spirito del Congresso di Vienna, del 1815, cioè all’idea-guida che le pacificazioni post-belliche nel Vecchio Continente debbano coinvolgere quanti più “aventi causa” possibili e debbano mirare a un riassetto largamente condiviso degli equilibri strategici nell’area geopolitica che si sviluppa dalle sponde dell’Atlantico e delle isole britanniche fino agli Urali e alle propaggini caucasiche dell’Asia minore. Se si vuole realmente restituire il nostro Continente al percorso di pace e di cooperazione sul quale si era incamminato dopo la caduta del muro di Berlino, è necessario mettere da parte la demagogia e negoziare con Vladimir Putin. Non solo di Ucraina si deve discutere, ma anche di complessiva stabilità europea e di ridefinizione dei target e delle finalità strategiche della Nato. Non possiamo permetterci il lusso di fare del gigante russo l’archetipo dell’“eterno nemico”, spingendolo ulteriormente tra le braccia dell’“amicocinese. Una tale mostruosità strategica e geopolitica la pagheremmo assai più cara di quanto gli ucraini stiano pagando oggi il maldestro tentativo di espansionismo a Est degli occidentali. E occorre fare presto, prima che i vertici di Pechino si facciano avanti e prendano il timone del negoziato russo-ucraino. Non è bello né umanamente giusto dover dire ai combattenti di Kiev che è finita e che devono arrendersi per evitare inutili spargimenti di sangue.

Ma quando il medico pietoso ha fatto il bene dell’ammalato? Benché cruda e dolorosa, la verità resta la strada maestra da cui ripartire per riprendersi il futuro. E la verità va detta anche al presidente ucraino Volodymyr Zelensky che, sui segnali ambigui che gli giungono dalle cancellerie occidentali, sta costruendo un film che non potrà mai essere proiettato: la Terza guerra mondiale. I principi e i valori di libertà sono sacri e devono essere difesi. Esistono, purtuttavia, limiti invalicabili all’impulso della reazione armata. Non è immaginabile che si rischi la distruzione di ogni forma di vita in Occidente per alimentare il falso mito resistenziale della vittoria di Davide/Zelensky contro Golia/Putin. Con tutto il rispetto per il coraggioso presidente ucraino, finire inceneriti dalle radiazioni nucleari francamente non è il massimo delle nostre aspirazioni. Una pace negoziata è possibile e va ricercata con salutare realismo. È ora che la politica torni a fare il suo mestiere nella consapevolezza che, come sostiene Henry Kissinger, “il banco di prova non è la soddisfazione assoluta ma l’insoddisfazione equilibrata”.

Aggiornato il 11 marzo 2022 alle ore 09:28