Nell’Italia delle culle vuote

Accade che, mentre la politica s’impantana su questioni prive di valore sostanziale, piomba sulle nostre vite, e sui nostri sogni, come un macigno scagliato dall’alto di una rupe, la dura sentenza dell’Istat a proposito della curva demografica italiana. Non passa giorno che ciascuno dei protagonisti della politica non si faccia avanti per illustrare la sua personale visione del mondo che verrà, non preoccupandosi minimamente che, di questo passo, non ci saranno più italiani a cui trasmettere ciò che le generazioni precedenti hanno lasciato in eredità.

Secondo il report dell’Istat sulla dinamica demografica nel 2022, al 31 dicembre 2022 la popolazione residente in Italia ammonta a 58.850.717 unità, -179.416 rispetto alla stessa data del 2021 (-0,3 per cento). Siamo di recente venuti fuori da una pandemia che ha fatto strage tra i nostri connazionali, ma non può essere il Covid la spiegazione sufficiente a giustificare l’impressionante calo demografico. Con le sole eccezioni del 2003 e del 2006, il saldo naturale resta negativo da trent’anni. È dal 1993 che muoiono in Italia più persone di quanto ne nascano. Nel quadriennio 2019-2022, il rapporto tra morti e nati si è stabilizzato su un saldo negativo del -0,3 per cento, con un picco nel 2020 a -0,7 per cento, motivato dall’esplosione pandemica.

Il fenomeno rilevato dall’Istat non riguarda, come in passato, alcune zone geografiche più interessate rispetto ad altre dagli effetti dello spopolamento, ma si spalma in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale. Se a Nord, nel 2022, è andata un po’ meglio (-0,1 per cento), nel Mezzogiorno è stato registrato il calo più significativo (-0,6 per cento). Il Centro, invece, si è tenuto nella media generale (-0,3 per cento). Il calo demografico determina un sempre più rapido invecchiamento della popolazione. All’inizio di questo secolo l’età media italiana era di 41,9 anni, nel 2021 è salita a 46,2 anni. Se, in ipotesi, si continuasse su questo trend, alla fine del secolo l’età media italiana corrisponderebbe a quella dell’accesso alla pensione. Si obietterà: vi sono molti sistemi per rimediare al crollo demografico. Vero, ma se scartiamo quello naturale della regolare successione delle generazioni, dal momento che il tasso di fecondità totale italiano – cioè il numero medio di figli per donna in età feconda (tra i 15 e i 49 anni) – è pari a 1,25, quindi lontanissimo da quel 2 che consentirebbe di mantenere stabile il dato numerico della popolazione, resta soltanto da considerare il ricorso ai rimedi artificiali.

Il primo tra questi è l’immissione nel tessuto socio-economico italiano di una massa d’immigrati di proporzioni tali da riportare in positivo il saldo demografico. Su questa linea è attestata la sinistra. E ciò spiega il perché, negli anni in cui ha governato, non solo non ha fatto nulla per impedire l’arrivo indiscriminato di masse d’immigrati illegali ma ha deliberatamente operato per incentivare i flussi migratori verso il nostro Paese. In tale ottica, si comprende perfettamente la tentazione dei progressisti di intervenire sulla legge che disciplina la concessione della cittadinanza a persone straniere, rendendola più elastica e a maglie più larghe di quella attuale. Ancor più si comprende il motivo per il quale i progressisti stiano soffiando sul fuoco della propaganda per ottenere la legalizzazione delle registrazioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali. L’assunto iniziale è: se la famiglia naturale non è più il totem intorno al quale si costruisce la società, è giusto che ogni persona si procuri la genitorialità per proprio conto, anche se tale ricerca dovesse comportare una transazione commerciale per essere conclusa positivamente. La destra, all’opposto, da sempre punta sulle misure d’incentivazione alla natalità per colmare il deficit demografico. Lodevolissimo proposito, sebbene un tantino utopistico quando sganciato da radicali politiche sociali, al momento impraticabili alla luce del quadro economico-finanziario del Paese. Parliamoci chiaro, come si può pretendere da una coppia di giovani di mettere su famiglia e fare i figli quando il lavoro non c’è, e se c’è è precario o non è adeguatamente remunerativo per sostenere i costi di un ménage familiare?

La nazione si è consegnata al declino demografico nel momento in cui ha cancellato dalle proprie priorità le politiche abitative. È dal “Piano Fanfani” del febbraio 1949 che in Italia non vi è stato un massiccio investimento nell’edilizia pubblica residenziale. Senza una casa a costo agevolato e senza un lavoro stabile e ben remunerato, è da pazzi pretendere che i nostri ragazzi si mettano a fare figli. Né può valere in eterno la soluzione del welfare domestico, in base al quale le pensioni dei nonni vengono impegnate per aiutare i nipoti a sopravvivere. Ciononostante, fa bene il Governo Meloni a insistere sull’estensione delle misure a favore della natalità. Tuttavia, bisogna essere consapevoli del fatto che non si svuota l’oceano con un cucchiaio. Allora che si fa? Ci si arrende alla sinistra e alla sua promessa di fare dell’Italia l’hotspot del mondo? Niente affatto. Se è che bisogna guardare nell’immediato ai rimedi artificiali, si punti lo sguardo nella giusta direzione. La difesa dell’identità nazionale è un valore pari, se non superiore, a quello dell’inclusione del diverso da noi. Perché, come ebbe a dire l’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, a una conferenza sull’immigrazione, organizzata nel settembre 2000 dalla Fondazione Migrantes: “Una consistente immissione di stranieri nella nostra Penisola è accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione”.

Si cominci allora a dialogare con gli italiani residenti all’estero. Attualmente risultano iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (fonte: Ministero degli Esteri) 5.486.081 persone, di cui 869mila nella sola Argentina. Se una quota di costoro decidesse di fare ritorno – con i propri discendenti – nella Madrepatria, la curva demografica ne beneficerebbe. Sono italiani o figli e nipoti di italiani e questa è la terra in cui vi sono le loro radici. Ora, tra le molte attività che verranno finanziate nell’ambito del Piano nazionale di resistenza e resilienza (Pnrr) ce ne è una che riguarda l’accoglienza dei discendenti degli italiani emigrati all’estero nei secoli scorsi. Si chiama “turismo delle radici”. Ma perché limitarsi a programmare a soli scopi turistici il ritorno nella terra dei padri di persone cresciute in altri Paesi? Perché non pensare a una “legge del ritorno” sulla falsariga di quella in vigore in Israele dagli anni Cinquanta del secolo scorso? La legge israeliana garantisce la cittadinanza a ogni persona di discendenza ebraica ma di altra nazionalità, purché si trasferisca in Israele con l’intenzione di rimanervi. Si potrebbe fare anche da noi, aggiungendo alla cittadinanza una serie di agevolazioni per un immediato inserimento lavorativo oltre a facilitazioni per la sistemazione abitativa.

Abbiamo un colossale problema di spopolamento della dorsale appenninica. Perché non pensare di recuperare quei luoghi meravigliosi, ricchi di bellezza e di memoria, affinché possano tornare a vivere? Comprendiamo l’egoismo di molti nostri connazionali che si domandano: se non prendiamo gli immigrati chi ci pagherà domani le nostre pensioni? La preoccupazione è legittima, mentre il rimedio non lo è quando si manifesta in forma di invasione di irregolari. Bisogna decidersi. Si preferisce la soluzione comoda, costi quel che costi alla tenuta della coesione intracomunitaria, oppure si è pronti a qualche sacrificio per salvare ciò che ci è stato lasciato in dono dai nostri progenitori? Non stupisce che non siano pochi quelli che, col pretesto del buonismo, sono più che disponibili a spalancare le porte della nazione a chiunque purché i propri interessi vengano garantiti. Per quanto ci riguarda, saremo pure degli irredimibili sentimentali, ma le persone che hanno venduto le fedi nuziali dei propri genitori e i gioielli di famiglia ricevuti in eredità, per potersi permettere la vacanza in qualche località alla moda, non ci sono mai piaciuti. E mai potranno piacerci.

Aggiornato il 27 marzo 2023 alle ore 09:26