Liberali, conservatori o… fusionisti?

Le suggestioni emerse durante l’incontro “Pensare l’immaginario italiano”, promosso dal think tank Nazione Futura, diventano il pretesto per tentare di riannodare i fili di un ragionamento sufficientemente complesso e lungo, direbbero gli esperti di cucina, semplicemente quanto basta. Avviso per i naviganti: se volete una sinossi o, per meglio dire, l’epitome di quanto metterò per iscritto, beh, questo si potrebbe condensare in una singola parola, quale “fusionismo”.

Ebbene, spoilerato il tutto, ora provo ad agghindare qualche riflessione personale attorno al nucleo dell’intera impalcatura ideale, magari partendo da un preavviso di chiarezza: l’impresa che si vuole condurre è di quelle ostiche, se non altro per un vissuto storico costellato di fallimenti. La Destra, o più correttamente, le Destre si sono da sempre avvalse di grandi individualità politiche e culturali. Il problema, semmai, è stata l’assoluta incapacità di fare rete, di creare connessioni mediante le quali far circolare pensieri, opere e parole. In pratica, di improntare un progetto da declinare più sulla strategia di lungo respiro che non sulla mera tattica strumentale e, va da sé, magari anche elettorale.

Peraltro, la cultura politica si addice all’orizzonte, poiché proprio la cultura è un impegno che la stessa politica deve far proprio per osare una visione del reale. Cultura, quindi, per riprendere le parole di Benedetto Croce, come proiezione di quel che viene elaborato nel mondo delle idee. In fondo, è una sorta di rimando al “cogito ergo sum” cartesiano, senza dubbio. D’altronde, non vi è nulla da conservare se non viene intrapresa una strada; non esiste una strada lungo la quale avviarsi se, dapprima, non si delinea una visione. E non c’è alcuna visione senza un’identità.

Chi sono, chi sei. Si parte sempre da qui. Le coordinate del nostro esistere e del nostro stare al mondo che non subiranno mai l’usura del tempo. Non è un feticcio parlare d’identità, ma un qualcosa di ineludibile per perimetrare concettualmente il nostro campo, largo o ristretto che sia e, di conseguenza, per distinguerci dal resto, per competere con l’altro, in virtù del fatto che dove c’è pensiero unico non c’è cultura, dove c’è concorrenza invece sì. Ed è giunto il momento in cui liberali e conservatori devono scendere in campo per giocare, seriamente, la loro partita. A ogni modo, se partecipare alla competizione è “conditio sine qua non” per giungere a un risultato positivo, la vittoria necessita di un passo ulteriore, che possiamo chiamare sinergia o più prosaicamente alleanza.

Già, ma l’alleanza tra liberali e conservatori può essere annoverata tra le opzioni possibili? No, perché è l’unica strada percorribile. Che si legga Evola o magari Leoni, Pound oppure Ricossa, o si cammina assieme oppure il rischio è quello di lasciare ampi spazi politici e culturali al progressismo tout-court. Dobbiamo diventare liberal-conservatori senza l’ausilio di alcun trattino ortografico e, soprattutto, metaforico. Perché la Destra del futuro o è fusionista oppure non è.

Ma, nello specifico, chi sono davvero i liberali e chi i conservatori? Partiamo dai primi. Ora, senza addentrarmi nella diatriba tra Einaudiani e Crociani, posso sommariamente sostenere che il liberale – lo dice il termine stesso – è colui che propugna la libertà in tutte le sue forme. In ottica politica, il compianto professor Antonio Martino riteneva che un liberale autentico fosse colui che, nello stesso medesimo istante, poteva ritenersi reazionario, conservatore e addirittura rivoluzionario, in virtù delle condizioni caratterizzanti le libertà oggetto della propria speculazione teorica. Ergo, reazionario se le libertà sono ormai perse e quindi devono essere riconquistate; conservatore laddove le libertà presentino la necessità di una particolare tutela; rivoluzionario allorquando non vi è altra possibilità di conquistare nuove tipologie di libertà. A fronte di tutto, comunque, vige quanto disse Filippo Turati – che liberale di certo non era – ovverosia: “Le libertà sono tutte solidali. Non se ne offende una senza offenderle tutte”.

Ora, i conservatori. Questi presentano un’inclinazione naturale nel difendere delle consuetudini morali, un particolare spirito comunitario, delle radici, una vocazione e tutti quegli elementi che vanno a comporre un corollario valoriale che possiamo ben interpretare e tradurre, in ottica filosofico-culturale, mediante l’ausilio della tradizione giudaico-cristiana. A tal proposito, con un po’ di azzardo intellettuale, andando per altro a rielaborare quanto sostenne Ferdinando Adornato in un suo riuscitissimo saggio di qualche tempo fa, il cristianesimo effettivamente può fungere da cerniera teoretica per tentare di avvicinare i due mondi che, in linea generale, compongono l’intera galassia nella quale io che scrivo e te, che leggi, siamo usi vivere, amare e soffrire. Specie se consideriamo i liberali vicini a una dimensione più propriamente laica, mentre i conservatori prossimi a una realtà ben mantecata con la religione.

Quanto appena asserito presenta un triplice motivo di veridicità, in virtù del fatto che la centralità della persona, il senso del limite e il ruolo dello Stato sono i capisaldi sui quali si impernia tutta la costruzione politico-culturale del ragionamento. Vediamo di analizzare le singole voci, una a una. La centralità della persona. A caratterizzare la riflessione principale del conservatorismo e del liberalismo di certo non è lo Stato e nemmeno la classe sociale, non è neppure la scienza bensì, per l’appunto, la centralità della persona/individuo. Il singolo visto non come una monade, ma come un tassello di un progetto comunitario più ampio e articolato. Interessante ricordare quanto proferì Paul Valéry nel voler dare una definizione dell’Europa e, va da sé, dell’intero Occidente. La nostra porzione di mondo, asseriva lo scrittore francese, è al meglio rappresentata dalle seguenti realtà urbane: Roma, Atene e Gerusalemme. E il motivo è presto detto: Roma creò il cittadino, Atene scoprì l’individuo mentre Gerusalemme rivelò la persona.

Sempre sul piano figurato, è alquanto suggestiva l’immagine di una civiltà che si è accresciuta nel mentre l’essere umano discendeva dai pendii scoscesi che lo allontanavano dal Sinai, dal Golgota e dall’Acropoli. A voler essere storicamente rigorosi, e questo lo ha ben ricordato Giorgia Meloni durante l’insediamento del suo Governo, in tempi relativamente più vicini ai nostri ci fu un’altra discesa che impresse una direzione inequivocabile alla nostra storia: quella che affrontò San Benedetto da Norcia abbandonando i monti Sibillini per dirigersi verso gli estremi del Continente europeo, allo scopo di rammendare un tessuto civile reso logoro durante i secoli oscuri. Nella nostra storia patria, inoltre, non furono poche le figure di esimi intellettuali che rimarcarono l’importanza del cristianesimo per la nostra dimensione umana e spirituale. Tra tutti Benedetto Croce, il quale intitolò un suo pamphlet “Perché non possiamo non dirci cristiani”, concetto che venne recuperato e vieppiù rimarcato, decenni dopo, da un altro filosofo, Marcello Pera, che decise di denominare un suo fortunato saggio “Perché dobbiamo dirci cristiani”. Entrambe le opere pocanzi menzionate sono collocate lungo un ideale filo comune, che sta a ricordarci come il cristianesimo si è di fatto riversato nel nostro tessuto urbano e civile in maniera pressoché plastica, tanto da contraddistinguere il cosiddetto “skyline”, cioè il profilo delle nostre città e dei nostri borghi. Pensate, a dimostrazione del tutto, quando Robert Schuman, colui che insieme ad Alcide De Gasperi e Konrad Adenauer viene annoverato tra i padri fondatori dell’Ue, sosteneva che l’Europa è quella delle cattedrali, senza alcuna possibilità di smentita.

Passiamo al senso del limite. Sia per il laico che per il credente il proprio “modus operandi”, il suo pensare, finanche il suo agire, non sono incardinati all’interno di un valore assoluto, in quanto condizionati da limiti imposti dal divino oppure delineati dalla meravigliosa massima kantiana del cielo stellato e della legge morale. In fondo, sia il conservatorismo che il liberalismo nascono dalla necessità di porre dei limiti. Il conservatorismo, lo ricorda bene Roger Scruton, adopera il buon senso – ripeto: il buon senso, cosa totalmente differente dalla sua degenerazione in “buonsensismo” – per ricordare la relatività dell’umano, il suo essere pascalianamente una canna pensante, la sua fragilità capace tuttavia di renderlo un qualcosa di unico e irripetibile, per porre infine le basi della bioetica, la scienza che sta a ricordare come tutto ciò che è possibile non è detto che sia anche plausibile.

Il liberalismo, d’altro canto, pone limiti al potere politico affinché il singolo e il suo agire (ripenso alla bella immagine che dell’uomo tratteggiò Antonio Rosmini) possano acquisire una sempre maggiore libertà d’azione. Ecco, quindi, come il liberale e il conservatore siano due lati della stessa medaglia. Accomunati dal diritto-dovere di tracciare dei confini, essi si pongono in contrasto rispetto alla cultura progressista. Ma liberali e conservatori – e qui riporto la felice intuizione di Marco Respinti – si pongono addirittura dei limiti a vicenda, senza i quali il pro-life e il pro-market avrebbero entrambi una prospettiva storico-culturale esiziale. Questo perché senza libertà l’ordine porterebbe inevitabilmente al soffocamento sociale e comunitario e altresì, senza il rigore e la misura, la libertà tenderebbe al caos e, conseguentemente, all’anarchia.

Infine, il ruolo dello Stato. L’essere umano, per il solo fatto di esistere, di venire al mondo, presenta dei diritti naturali che, proprio in quanto tali, sono dei diritti prepolitici. Ovviamente una impostazione siffatta cambia il paradigma statuale, per cui non più il Leviatano che va a erogare il diritto al singolo in quanto cittadino, ma uno Stato funzionale che riconosce e tutela il diritto del singolo in quanto persona. E, in considerazione di tale assunto, sembrano pressoché coincidenti le riflessioni di due pensatori, uno conservatore e l’altro liberale. Perché se Robert Nozick parla correttamente dello Stato come un guardiano notturno – invisibile fin quando non si commettono illeciti nei confronti delle libertà altrui – Karl Popper ritiene che il liberale non sia altro che un anarchico cosciente del ruolo essenziale dello Stato, visto alla stregua di un male necessario. A tal proposito, i padri costituenti americani ritenevano che, allorquando l’istituzione statuale non rispettasse il suo dettame originario, cioè i diritti “sacrali” dell'individuo quali la vita, la libertà e il diritto alla proprietà privata, sarebbe stato opportuno, come “extrema ratio”, abbatterla per poi costituirne un’altra che fosse aderente al suo scopo iniziale.

In conclusione, di questa analisi, per forza di cose lacunosa tanto da dover chieder venia a te che sei arrivato a scorrere fin qui, voglio riportare in calce le parole di un giornalista che si occupa da anni di tematiche politico-culturali: Luigi Mascheroni. Egli, dinnanzi alla verità fattuale per la quale le destre hanno più di qualche punto in comune, ricorda come tali elementi sono caratterizzati da una “cultura profondamente anti-egualitaria” e da alcuni valori chiave, tipo la difesa dell’identità (qualsiasi essa sia), la salvaguardia delle differenze e l’esaltazione delle diversità a favore semmai di una molteplicità di uguaglianze e di libertà.

Aggiornato il 11 aprile 2023 alle ore 09:34