Dalla legge del mito al mito della legge

“Il mito dà senso al mondo”: così Leszek Kolakowski ha osservato nei suoi studi sul mito, ribaltando la visione comune per cui il mito è qualcosa di etereo, sfuggente e, in quanto puramente immaginifico, del tutto estraneo rispetto al mondo reale. Kolakowski, invece, con la sua consueta lucidità, insegna che il mito, semmai, è ciò che conferisce un senso al mondo, che è, cioè, norma di disciplina razionale della realtà. Se l’opinione diffusa (fra)intende la natura del mito, reputandolo come qualcosa di avulso dal dato di realtà, da confinare nel margine del racconto fantastico, i veri studiosi del mito spiegano, invece, come esso costituisca il fondamento ingiustamente ignorato della realtà medesima. Il mito rappresenta, in sostanza, la manifestazione primigenia e archetipica della razionalità umana e della stessa normatività, poiché posto quale norma etica ancestrale che emerge dagli albori dell’umanità e dei racconti originari intorno all’umanità medesima. Il mito si aggrega dalle nebulosità primordiali della creazione, e indica e dichiara gli sviluppi della realtà dopo il momento originario della creazione stessa. Il mito gode di una normatività dichiarativa – non certo costitutiva – ma non per questo secondaria o irrilevante, poiché traduce l’intima natura della realtà secondo la sua essenza originale, secondo la sua struttura etica più elementare e profonda, celata agli occhi dell’uomo contemporaneo non più aduso a cercare l’essere delle cose e del mondo.

L’uomo odierno, infatti, è un uomo demitizzato non solo e non tanto a causa delle distrazioni materiali che lo assillano nella sua quotidianità, ma poiché non è più solito percorrere i sentieri dell’ontologia alla ricerca dell’essere, dell’essere di se stesso, delle cose e dell’universo nella sua interezza. L’uomo odierno è sempre più in difficoltà dinnanzi al mito poiché non più in grado di muoversi nel regno della qualità, prigioniero del regno della quantità. Il mito, ciò nonostante, rivela che esiste una legge fondamentale alla base dell’avventura umana, che regola, orienta e dà ragione – cioè esplicita il logos – dell’esistenza e dei suoi accadimenti. Il mito annuncia che esistono delle leggi insuperabili e inviolabili: per esempio, che Edipo non può uccidere il padre Laio e sposare la madre Giocasta; che Creonte non può ignorare le leggi di natura – come quelle che attraverso la coscienza si manifestano – difese da Antigone; che Medea non può assassinare i propri stessi figli senza che si dilaceri la trama della relazionalità primigenia, cioè quella della maternità che costituisce l’origine etica dell’umanità.

La legge del mito, insomma, è strettamente legata alla cogenza del logos, della ragione, cioè di quell’elemento costitutivo più tipico dell’essere umano che oggi, proprio l’uomo attuale, tende così radicalmente a negare e ad avversare. In fondo, proprio l’ambito più tipico della normatività – cioè quello giuridico – è strettamente legato al mito sebbene da una relazione di inversione del valore, per cui alla legge del mito che contraddistingue il resto della realtà il mondo giuridico ha sostituito il mito della legge. La legge, infatti, con il tempo, specialmente negli ultimi secoli, è divenuta l’elemento caratterizzante della giuridicità, il piccolo contenitore all’interno del quale racchiudere l’immensità del diritto, lo scrigno sacro che custodisce e cristallizza l’assoluta volontà del sovrano (principe, popolo, razza eletta, classe redimibile, minoranza discriminata). La legge è assurta ad unica dimensione della giuridicità, senza la quale e al di fuori della quale pare non potervi essere diritto. La legge, infatti, è divenuta onnicomprensiva, totalizzante, inserendosi in ogni aspetto della vita umana.

La legge è dipinta come sacra proprio quando il sacro ha perduto la sua intrinseca normatività; la legge ha preso il posto del sacro; la legge è divenuta intoccabile e indiscutibile come quei retaggi divini che pian piano ha sostituito nel corso del tempo. Lo spazio del sacro, intoccabile, ieratico e imponente, che scandiva lo spazio e il tempo della comunità, adesso – dopo un rampante processo di secolarizzazione – è interamente occupato dalla legge che quasi ne fa le veci. La legge, non a caso, è solenne e formale, è generale, ed è astratta e pubblica. Tutto l’ordine del diritto è stato consegnato nelle mani della legge: la legge ordina, la legge riassume, la legge corregge, la legge perdona, la legge bilancia interessi, la legge garantisce la proprietà, la legge concede o revoca la libertà, la legge sanziona e grazia, la legge esaudisce i desideri come quello alla genitorialità, la legge regola il pubblico e il privato, la legge disciplina la salute, il lavoro, la famiglia, e talvolta perfino la coscienza; la legge, insomma, come inarrestabili e silenziosi rivoli d’acqua, si insinua silenziosamente in ogni interstizio dell’esistenza e dell’umano. Non c’è luogo che la legge non raggiunga, poiché su tutto il territorio nazionale e, talvolta, internazionale, s’estende la sua portata, e non c’è tempo che essa non travalichi come il vento supera in altezza le cime montuose, perché alla sua irretroattività possono concedersi, come si concedono, deroghe ed eccezioni da parte del legislatore (tecnicamente), da parte delle toghe (creativamente), o da parte della dottrina (teoreticamente).

La legge può tutto questo poiché esprimendo la volontà di chi detiene la sovranità – ieri il principe, oggi il popolo attraverso i suoi rappresentanti – è avvolta e protetta da un’aura di incontestabile legittimità, dalla suprema mistica della sua infallibilità, da una fondazione mitografica e mitologica della sua aurea perfezione. La legge è divenuta autopoietica e autolegittimante, poiché dove regna la legge vige la legalità all’ombra della quale tutti possono dormire sonni tranquilli. Cosa potrebbe accadere di male se la legalità assicura l’ordine, la pace, la proceduralità della vita, dei rapporti e dell’umano? Cosa potrebbe accadere di negativo se la legalità è lo scudo contro ogni malvagità? Cosa potrebbe accadere che la legalità non sappia e non possa fronteggiare? Ciò che un tempo era prerogativa esclusiva del potere di Zeus, oggi la legge ne contende e ne reclama il ruolo, il primato e l’esercizio, così che dalla vertiginosa e inarrivabile altezza dell’Olimpo della sua onnipotenza conferisce un ordine alla vita dei mortali che placidamente vi si sottomettono. Chi oserebbe mettere in discussione il comando di un dio? Così, chi oserebbe, oggi, mettere in discussione il comando della legge? Dio non c’è più, dicono sia morto; ma la legge è sopravvissuta; la legge, infatti, è il nuovo dio, il nuovo regolatore immortale dell’universo, la nuova speranza dell’ordine civile.

Alla luce di tutto ciò, dunque, si conferma l’inderogabile forza culturale del mito che perfino l’odierna civiltà occidentale non è riuscita ad espungere del tutto malgrado il suo materialismo e il suo nichilismo. Bisognerebbe, allora, cominciare a chiedersi se, proprio nell’epoca della demitizzazione, quale è quella attuale che vive senza valori fondativi, senza cosmogonie, senza divinità, senza trascendenza, senza metafisica, che nel microscopio e nel telescopio ha conchiuso tutte le sue speranze e, occorre riconoscerlo, anche tutte le sue illusioni, non sia giunto il momento di cominciare a demitizzare anche e soprattutto la legge, non già in nome dell’illegalità e del kaos, ma in nome di quel kosmos che solo la giustizia può garantire e senza la quale la legge è soltanto il fantasma di se stessa, l’ombra di un sole probabilmente giunto ormai al suo ultimo tramonto.

(*) Foto di Anka Ptaszkowska, Museo d’arte moderna, Varsavia

Aggiornato il 30 aprile 2024 alle ore 09:40