n questi ultimi tempi, con l’at-
tenzione tutta rivolta a quanto
sta succedendo in Algeria, pochi
si rendono conto del prolungarsi
all’infinito della guerra civile in
Siria. Di sicuro, alla grande quan-
tità di sangue che, oramai da trop-
po tempo (2 anni), scorre in quel
Paese martoriato corrisponde un
altrettanto notevole dose di sana
ipocrisia occidentale. Ultima pro-
tagonista, la Germania.
‘’
La Germania non vuole esse-
re una superpotenza nella politica
estera’’, si è affrettato a dichiarare
il ministro delle Finanze tedesco
Schaeuble, in un’intervista rila-
sciata all’Handelsblatt, in occa-
sione dei festeggiamenti dei 50 an-
ni del trattato dell’Eliseo siglato
tra Francia e Germania, che si ten-
gono in questi giorni a Berlino.
‘’
Come potremmo del resto,
dopo Hitler e Auschwitz?’’, ha ag-
giunto il ministro, spiegando che
la storia ha effetti che durano a
lungo. “Noi non rifiutiamo di as-
sumerci la responsabilità - ha con-
cluso - ma abbiamo un altro rap-
porto con il potere militare’’.
Intanto, le batterie di missili
terra-aria Patriot tedeschi e olan-
desi assegnati dalla Nato ad An-
kara per proteggere il territorio
turco da ipotetici attacchi missi-
listici dalla Siria sono arrivati oggi
nel porto turco di Iskenderum, vi-
cino ad Antiochia, come ha rife-
I
rito l’agenzia Anadolu.
Circa 200 soldati tedeschi in-
caricati della manutenzione e del
funzionamento delle batterie for-
nite da Berlino sono da poco
giunti in Turchia.
A fronte di questo, tra ipocrite
dichiarazioni e comportamenti
concludenti”, ieri notte Damasco
e parte dei suoi sobborghi, così
come alcune città a Sud della ca-
pitale, sono rimasti senza elettri-
cità causa, dicono dal governo, di
un “attacco terroristico armato a
una delle principali linee di ali-
mentazione” della rete elettrica.
Non è la prima volta che man-
ca la luce. In ogni occasione, il go-
verno attribuisce il disservizio ad
azioni di sabotaggio commesse
da terroristi”. Alla luce dell’ in-
cremento dei prezzi dei derivati
del petrolio, come il gasolio e il
gas, utilizzati per il riscaldamento
domestico, i cittadini di Damasco
e della Siria in generale fanno
sempre più affidamento sull’ener-
gia elettrica, tanto che secondo
fonti governative il consumo è au-
mentato in alcune zone del 100%,
causando continui guasti a una
rete di distribuzione già di per sé
obsoleta.
Ma alle accuse rivolte dalle au-
torità ai gruppi “terroristi” di
compiere sabotaggi, l’opposizione
ribatte che i bombardamenti
dell’aviazione del regime contro
le città e i villaggi hanno causato
ingenti danni alla rete elettrica.
Il regime di Bashar al Assad
ha deciso, dal canto suo, di crea-
re una forza paramilitare per so-
stenere l’esercito nella guerra
contro i ribelli. “L’esercito non è
preparato per la guerriglia, il re-
gime ha quindi deciso di creare
un Esercito di difesa nazionale”,
ha detto alla France presse il di-
rettore dell’ Osservatorio siriano
per i diritti umani, Rami Abdel
Rahmane. “Per i diritti umani”…
fa un po’ ridere (se non facesse
piangere), vero?
LUCA ALBERTARIO
II
ESTERI
II
Obama vuole una seconda rivoluzione: collettivista
di
STEFANO MAGNI
ome volevasi dimostrare, vinto
il suo secondo mandato presi-
denziale, Barack Obama punta a
cambiare il volto degli Stati Uniti.
Tenta di rimettere mano alla Costi-
tuzione, a reinterpretandola radi-
calmente. «Ricordiamo che ciò che
tiene insieme questa nazione non è
il colore della nostra pelle o i dogmi
della nostra fede o l’origine dei no-
stri nomi – dice Obama, che ha ori-
gini kenyote ed è l’incarnazione del
sogno americano - Ciò che ci rende
eccezionali, ciò che ci rende ameri-
cani, è la nostra fedeltà a un’idea,
articolata in una dichiarazione fatta
più di due secoli fa: “Noi riteniamo
queste verità di per se stesse eviden-
ti, che tutti gli uomini sono creati
uguali, che essi sono dotati dal loro
Creatore di alcuni diritti inalienabili,
che fra questi sono la Vita, la Liber-
tà, e il perseguimento della Felici-
tà”». Benissimo. Ayn Rand, ispira-
trice di gran parte del pensiero
repubblicano contemporaneo,
avrebbe detto esattamente le stesse
cose. Ma, a questo punto, fuggendo
lei da un regime totalitario, avrebbe
coerentemente tratto la conclusione
che il sistema americano è l’unico
in cui l’individuo può trasformare
liberamente in realtà le sue idee, sen-
za essere vincolato da un monarca
o da una tirannia della maggioran-
za. Obama, invece, trae la conclu-
sione opposta dalle chiare parole
della Dichiarazione di Indipenden-
za: «Abbiamo imparato che nessu-
na unione fondata sui principi di li-
C
bertà e di uguaglianza potrebbe so-
pravvivere se l’uomo è metà schiavo
e per metà libero. Noi siamo fatti
per rinnovarci, per andare avanti
insieme. Insieme, abbiamo stabilito
che una moderna economia neces-
sita di ferrovie e strade per velociz-
zare viaggi e commerci, scuole e
università per formare i nostri la-
voratori. Insieme, abbiamo scoperto
che un libero mercato prospera solo
quando ci sono delle regole volte a
garantire la concorrenza e la cor-
rettezza. Insieme abbiamo deciso
che una grande nazione deve avere
cura per i più vulnerabili, e proteg-
gere il suo popolo dai peggiori pe-
ricoli della vita e le disgrazie». La
schiavitù di cui Obama parla, evi-
dentemente, non si riferisce alla
malnata istituzione abolita da Lin-
coln 150 anni fa, ma alla “schiavi-
tù” come era intesa da Roosevelt e
dai socialisti europei: quella del bi-
sogno. Dove è il problema? Se per-
metti a una parte di americani di li-
berarsi dalla “schiavitù” del
bisogno, devi necessariamente im-
porre la schiavitù (senza virgolette)
del prelievo fiscale e della redistri-
buzione coercitiva della ricchezza,
da chi produce a chi non produce.
Era questo il sogno della Rivoluzio-
ne Americana? No, semmai questo
era il sogno di tutte le rivoluzioni
europee. E queste ultime, come in-
segna la storia del Novecento, han-
no prodotto solo mostri: i regimi
totalitari nei casi peggiori, fallimen-
tari socialdemocrazie (che ora mo-
strano il conto) nei migliori. Oba-
ma, nonostante tutto, sceglie questo
modello.
Il presidente si rende conto di
proporre un cambiamento radicale
e lo dimostra nel suo passaggio suc-
cessivo: «Abbiamo sempre capito
che quando i tempi cambiano, dob-
biamo cambiare anche noi; che la
fedeltà ai nostri principi fondatori
richiede risposte nuove alle nuove
sfide, che preservare le nostre libertà
individuali richiede in ultima analisi,
l’azione collettiva. Il popolo ameri-
cano non può più soddisfare le esi-
genze del mondo di oggi, agendo
da solo. Nessuna singola persona
può preparare tutti gli insegnanti di
matematica e scienze. Avremo biso-
gno di preparare i nostri figli per il
futuro, o costruire le strade e le reti
ferroviarie e laboratori di ricerca
che porterà nuovi posti di lavoro e
imprese sulle nostre coste». Durante
la campagna elettorale del 2012,
Obama aveva coniato il motto
You didn’t build that” (non lo hai
costruito) per veicolare un messag-
gio profondamente anti-individua-
lista: nessuno può farsi da sé, tutti
hanno bisogno di essere inseriti in
un’azione collettiva. In questo di-
scorso, il presidente spiega lo stesso
concetto in modo ancora più det-
tagliato. Ribalta la filosofia fondan-
te degli Stati Uniti, secondo cui una
società è un insieme di individui e
la società sana è quella fatta da in-
dividui sani. Per Obama è la società
che costruisce e forma gli individui.
Dunque lo Stato, facendosi porta-
voce e agente degli interessi della
società, deve porsi alla guida delle
azioni individuali, crea dall’alto po-
sti di lavoro, si sostituisce agli im-
prenditori. Mira alla redistribuzione
della ricchezza: «Noi, il popolo, ca-
piamo che il nostro Paese non può
avere successo quando alcuni rie-
scono a fare molto bene e un nu-
mero sempre più grande di persone
invece fatica a fare. Noi crediamo
che la prosperità degli Stati Uniti
debba poggiare sulle spalle larghe
di una classe media emergente. Sap-
piamo che l’America prospera
quando ogni persona può trovare
l’indipendenza e l’orgoglio nel pro-
prio lavoro, quando il salario del
lavoro onesto libera le famiglie dal
baratro di disagio». Ma siamo sicuri
che questo sia il segreto del successo
del modello americano? Fuggendo
dalle monarchie e dalle dittature del
Vecchio Continente, milioni di in-
dividui di talento hanno costruito
il benessere del Nuovo Mondo pro-
prio perché hanno potuto arricchirsi
(“
fare soldi”, come diceva, senza
mezzi termini, Ayn Rand) senza es-
sere costretti a donare gran parte
del prodotto della loro fatica a un
re, a un dittatore, o a un governo
socialista. Non è la redistribuzione
della ricchezza, a un’astratta “classe
media”, che ha fatto grande l’Ame-
rica. È il talento, la creatività, lo spi-
rito intraprendente dei bistrattati ed
egoisti “robber barons” del XIX Se-
colo che ha reso l’America un Paese
dotato di telegrafi, ferrovie, strade,
porti e navi a vapore, scuole e uni-
versità, biblioteche e musei, ospedali
e opere filantropiche (tutto rigoro-
samente
privato
)
più di tutti i con-
correnti europei. Le ultime rivolu-
zioni industriali, quelle del Personal
Computer e di Internet, sono frutto
della creatività di talenti individuali
che solo in America hanno potuto
esprimere liberamente tutto il loro
potenziale. È la ricaduta della loro
ricchezza nel mercato libero che ha
creato la “classe media” e le ha per-
messo di vivere meglio dei proletari
e dei borghesi contemporanei in Eu-
ropa e nel resto del mondo. Obama
lo sa, ma rifiuta di dirlo, al pari di
tutta la classe accademica e intellet-
tuale contemporanea americana.
Preferisce dare ascolto alla paura e
alla frustrazione di milioni di ame-
ricani colpiti dalla crisi, dando loro
in pasto una facile e rassicurante so-
luzione governativa: “ci penso io a
sfamarvi”. A spese di chi? La rispo-
sta sarà data dai contribuenti ame-
ricani nei prossimi quattro anni.
Sangue e menzogne in Siria,
le ipocrisie dell’Occidente
Israele, non temere
i“falchi”di destra
Obama parla nel nome
della libertà, ma mira
all’uguaglianza.
A scapito della libertà
Il presidente democratico
vuole la redistribuzione
della ricchezza.
Ma a spese di chi?
ome avviene tutti gli anni, le
elezioni nazionali nel piccolo
Stato di Israele interessano tutto il
mondo. Come sempre, la preoccu-
pazione principale dei commenta-
tori e delle cancellerie occidentali
è che possa vincere la “destra”, che
è contraria al “dialogo” con la Pa-
lestina e possa minare il progetto
di due Stati (Palestina e Israele) per
due popoli. Benjamin Netanyahu
e il suo ministro degli Esteri Avig-
dor Lieberman, in questi anni, sono
stati i “falchi” per l’opinione pub-
blica europea. Eppure, nel corso
della loro amministrazione, hanno
continuato il dialogo, si sono con-
vinti della necessità di giungere alla
conclusione di due Stati per due
popoli e, al massimo, si sono limi-
tati a ridefinire i dettagli del pro-
getto. Netanyahu si distingue dal
governi laburisti per la sua mag-
giore opposizione a dividere Geru-
salemme. Ed è solo per cercare di
mantenere unita la capitale che ha
dato luce verde, più di una volta,
alla costruzione di nuovi insedia-
menti nella periferia orientale della
città. Le costruzioni non sono mai
partite, ma il solo annuncio di po-
terli avviare, ha sempre dato inizio
a furiosi dibattiti nell’opinione pub-
blica occidentale e provocato forti
mal di testa nel governo degli Stati
Uniti, arbitro del lungo negoziato.
Prima che Netanyahu si distingues-
se come “falco”, la stessa etichetta
C
era attribuita ad Ariel Sharon. Ma
è stato proprio lo storico generale,
ora in coma irreversibile da sette
anni, ad aver avviato, nella pratica,
la soluzione di due popoli in due
Stati, ritirandosi da Gaza. La di-
scendente diretta del “falco” Sha-
ron è Tzipi Livni, leader del partito
centrista Kadima. Che ora, agli oc-
chi delle cancellerie occidentali, è
la “colomba” della politica israe-
liana. Accertato che Sharon non è
un “falco” e non lo è neppure Ne-
tanyahu, oggi i media sono alla ri-
cerca del nuovo uomo di destra da
accusare. E lo hanno trovato, a
quanto pare, in Naftali Bennett,
leader del nuovo partito “La casa
ebraica”, che si oppone all’indi-
pendenza palestinese. Ma a ben ve-
dere, nemmeno lui è un “falco” nel
senso pieno del termine: vorrebbe
semplicemente restituire Gaza al-
l’Egitto e dare piena autonomia
(
sotto la protezione israeliana) alla
Cisgiordania. È un atteggiamento
difensivo, non imperialista. Insi-
stendo a identificare nella destra
israeliana il pericolo peggiore per
il processo di pace, dimentichiamo
i falchi che proliferano dall’altra
parte del confine. Hamas, con il
suo intransigente rifiuto di ricono-
scere Israele non è una “colomba”.
Per non parlare di Ahmadinejad,
che vuole spazzar via Israele dalla
mappa del mondo”.
GIORGIO BASTIANI
L’OPINIONE delle Libertà
MERCOLEDÌ 23 GENNAIO 2013
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