Page 2 - Opinione del 28-9-2012

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POLITICA
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Prendi isoldiespreca:così leRegionidivoranomiliardi
di
LUCA PAUTASSO
n costo medio di 750mila eu-
ro l’anno per ognuno dei seg-
gi di ciascun consiglio regionale
italiano. Tanto per citare qualche
numero, 1.111 consiglieri regionali
in tutta Italia, dai 30 della Basili-
cata, che ne ha quanti il Molise, ai
90
della Sicilia, che ne ha dieci in
più della Lombardia e addirittura
30
in più del Piemonte. Le provin-
ce autonome di Trento e Bolzano,
messe assieme, contano 70 consi-
glieri, uno in meno della Regione
Lazio. Gli abitanti però sono ap-
pena un milione, ovverosia meno
della metà della sola Roma. A fare
le moltiplicazioni per vedere quan-
to costino i consigli regionali, si ri-
schia addirittura di esaurire le cifre
disponibili nella calcolatrice. Sono
più di 830milioni di euro, in ogni
caso. Ogni anno, beninteso.
Poi ci sono le spese del com-
plesso amministrativo direttamente
collegato alle poltrone. E poi an-
cora ci sono quei costi della poli-
tica regionale lievitati del 98% nel-
l’arco di un decennio, dai 452,6
milioni del 1999 agli 896,7 del
2010.
Senza dimenticare le spese
per studi e consulenze esternaliz-
zati: in media, 950 euro per cia-
scun cittadino italiano.
Sono questi i numeri sciorinati
ieri dal
Sole 24ore
.
Sono solo uno
degli aspetti della macchina man-
giasoldi regionale. Come riferisce
anche l’ultimo studio effettuato
dalla Cgia di Mestre sui costi degli
enti locali, tra il 2000 e il 2010 le
regioni italiane hanno aumentato
le loro spese di ben 89 miliardi di
euro. Tanto per fare un paragone,
la manovra “Salva-Italia” decretata
dal governo Monti per riassestare
i disastrati conti pubblici nazionali
ammontava a poco più di 33 mi-
liardi. Ed è bastato che ammontas-
se a poco più di un terzo del rin-
caro dei costi delle regioni
dell’ultimo decennio perché da
Salva Italia” venisse ribattezzata
U
Lacrime e Sangue”. Dodici anni
fa le regioni costavano già al con-
tribuente qualcosa come 120 mi-
liardi l’anno, oggi ne costano quasi
210.
A fare impressione, tanto nei
numeri pubblicati dal principale
quotidiano economico d’Italia
quanto in quelli diffusi dall’asso-
ciazione delle pmi mestrine, sono
proprio le spese per la macchina
amministrativa. Quella che com-
prende assessorati, dipartimenti,
uffici, sportelli. L’altra faccia della
politica regionale, insomma. Per
quasi tutte le regioni, comprese le
province autonome di Trento e
Bolzano, la voce “Amministrazione
generale” (ovverosia gli stipendi
del personale amministrativo,
escluso quello impiegato nella sa-
nità e nella formazione, e le spese
per la sicurezza e il funzionamento
della macchina burocratica) com-
pare tra le prime tre nel comparto
delle uscite. Facendo una media
nazionale, la spesa per il manteni-
mento dell’amministrazione gene-
rale figura al secondo posto, con
12,5
miliardi di euro l’anno. Quasi
quanto si spende per i trasporti.
Per la Valle D’Aosta, nel 2010, è
stata addirittura la prima: 382 mi-
lioni di euro spesi, il 22,7% del to-
tale, per un costo pro capite di
2.988
euro. E gli abitanti non rag-
giungono la soglia dei 130mila.
Chi spende di più in valore asso-
luto è però la Sicilia: 2,3 miliardi
di euro bruciati nel 2010, quasi il
doppio di quanto destinato allo
sviluppo economico, ovvero i con-
tributi per industria, artigianato e
commercio, e ai finanziamenti al-
l’agricoltura e al turismo.
Già, lo sviluppo economico. Ec-
co un altro settore nel quale la
macchina regionale riesce a togliere
anche quando da l’impressione di
dare. Due casi emblematici sono
quelli di Emilia Romagna e Lazio.
Una regione del nord, amministra-
ta dal centrosinistra, e una del cen-
tro, amministrata dal centrodestra.
Entrambe con una forte vocazione
produttiva. Nel 2010 (i dati sono
sempre quelli forniti dalla Cgia di
Mestre), l’Emilia Romagna ha in-
vestito nel sostegno all’impresa, al-
lagricoltura e al turismo 541 mi-
lioni di euro, il Lazio 836 milioni.
Sul fronte della sanità, però, l’Emi-
lia Romagna ha speso quasi 9,2
miliardi di euro, il lazio 14 miliar-
di. Qual è il collegamento tra le
due voci? l’Irap, l’Imposta regio-
nale sulle attività produttive, la tas-
sa dal meccanismo perverso che
vede aumentare le aliquote paral-
lelamente all’aumento degli inve-
stimenti e delle assunzioni operate
dall’impresa. Più l’azienda crea po-
sti di lavoro, più paga. Più l’azien-
da si espande, e compra nuovi
macchinari per incrementare la
produzione, più paga. Tanto per
fare un esempio pratico, su una
busta paga netta di 2mila euro,
l’imprenditore può arrivare a pa-
gare di tasca propria alla regione
circa 190 euro di Irap. E con la fa-
migerata Irap, le regioni vanno a
coprire fino al 40% e oltre delle
spese sanitarie. L’aliquota, stabilita
al 4,25% nel 1997 e ridotta al
3,9%
nel 2008, deve obbligatoria-
mente essere aumentata dell’1%
nel caso in cui la regione sfori il
tetto di spesa sanitaria. Abruzzo,
Campania, Lazio, Molise e Sicilia
le regioni in cui si paga di più, per-
ché già avevano stabilito l’aumento
prima del 2008, quando ancora
era in vigore la vecchia aliquota
del 4,25%.
Insomma, ancora una volta con
una mano si allunga un contenti-
no, e con l’altra si depreda i più
meritevoli (quelli che più investono
e più assumono) per tappare i bu-
chi di un servizio sanitario che
quasi ovunque si dimostra inade-
guato e inefficiente. Ancora una
volta, nelle regioni così come a li-
vello nazionale, sono cittadini e
imprese a pagare per la malammi-
nistrazione di chi non rinuncia a
vivere al di sopra delle proprie pos-
sibilità, sulle spalle degli altri.
Facendo una media
nazionale, la spesa
per il mantenimento
dell’amministrazione
generale regionale figura
al secondo posto
in bilancio, con 12,5
miliardi di euro l’anno
Anche per gli enti locali
sono sempre cittadini
e imprese a pagare
la cattiva gestione
di chi non rinuncia
a vivere al di sopra
delle proprie possibilità,
sulle spalle altrui
segue dalla prima
Sallusti e l’Ilva
(...)
Se si trova un magistrato serio ed equi-
librato si può sperare in bene. Ma se si tro-
va un magistrato di altro genere si può fi-
nire decisamente male.
La classe politica continua ad ignorare lo
stato di inquietudine e di preoccupazione
che messaggi del genere producono sull’opi-
nione pubblica del paese. E rinvia di anno
in anno ormai da alcuni decenni quella ri-
forma della giustizia che, senza penalizzare
nulla e nessuno, dovrebbe puntare a ridare
fiducia, stabilità e serenità ai cittadini. Ma
se i politici sono sordi ed ottusi spetterebbe
ai magistrati prendere atto che ogni mes-
saggio di incertezza sulla giustizia che si
diffonde nella società nazionale si trasforma
in sfiducia e discredito nei loro confronti.
E, paradossalmente, dovrebbero essere pro-
prio loro ad impugnare la bandiera della
riforma della giustizia per non continuare
a fungere da copertura di una classe politica
inetta ed irresponsabile.
Certo, i magistrati possono anche infischiar-
sene se una norma di ispirazione totalitaria
come quella sulla responsabilità oggettiva
dei direttori dei giornali rimane in un co-
dice a dimostrazione della arretratezza del
paese. Ma debbono sapere che il discredito
per la sua applicazione ricade direttamente
su chi la applica senza equilibrio. Ed i ma-
gistrati possono anche stabilire che il diritto
alla salute è sempre e comunque superiore
al diritto al lavoro e mandare in disoccu-
pazione migliaia di lavoratori ed in malora
buona parte del settore manifatturiero del
paese. Ma, visto che governo e Parlamento
non si assumono le loro responsabilità ri-
formando le norme autoritarie e fissando
il principio che la politica industriale non
si decide nelle aule di giustizia ma in quelle
della democrazia, si caricano di un peso di
responsabilità che rischia di schiacciarli.
Se non vogliono fare la fine della classe po-
litica diventino loro i banditori ed i pro-
motori della riforma della giustizia e del ri-
torno allo stato di diritto.
ARTURO DIACONALE
Libertà & libertà
(...)
La possibilità di essere diffamati, di ve-
dere distorte o manipolate la nostra storia
e le nostre idee nel pubblico dibattito, è il
prezzo da pagare per vivere in una società
aperta, libera, democratica. Un prezzo che
può, e deve essere attenutato, “calmierato”,
con il diritto alla rettifica e pene pecuniarie
anche severe, ma non “azzerato” con il car-
cere.
Purtroppo, come spesso capita in Italia, sia-
mo riusciti nel paradosso di non tutelare
né il diritto alla reputazione né la libertà
di stampa. Il caso dal quale abbiamo preso
spunto dimostra infatti il nostro fallimento
sotto ogni punto di vista – giornalistico, le-
gislativo, e infine giudiziario. Un giornale
che senza abiurare alle proprie opinioni
avrebbe potuto riconoscere l’errore, ma
non l’ha fatto, in questo modo prefigurando
quell’«incauto disprezzo» della verità che
rende la diffamazione un reato anche negli
Stati Uniti; un codice che prevede ancora
il carcere, in contrasto con le legislazioni
delle altre democrazie occidentali e con la
giurisprudenza della Corte europea dei di-
ritti dell’uomo, ma al tempo stesso ineffi-
cace nell’imporre vere rettifiche, adeguate
nella visibilità e nella durata, pene pecu-
niarie e professionali rapportate davvero
alla recidiva e alla gravità, cioè le uniche
sanzioni in grado di riparare il danno. E
infine, una condanna che considerando i
pochi precedenti è apparsa a molti “politi-
ca”: se il querelante non fosse stato un ma-
gistrato, e il giornalista di destra, forse non
staremmo parlando di carcere.
FEDERICO PUNZI
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L’OPINIONE delle Libertà
VENERDÌ 28 SETTEMBRE 2012
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