Sulle tasse Biden ha ceduto all’ultra-sinistra

martedì 4 maggio 2021


Joe Biden ha fama di essere un moderato. Mai una parola fuori posto, mai tentativi di parlare “alla pancia” degli elettori, mai proclami oltranzisti, mai nessuna proposta non adeguatamente ponderata. Sempre un atteggiamento equilibrato e prudente. Sicuramente un uomo di sinistra, ma di quella sinistra pienamente integrata nel sistema americano, nella concezione fortemente capitalistica che anima quella società e che auspica, nella peggiore delle ipotesi, qualche “correttivo” al libero mercato, ma non il suo controllo o la sua regolamentazione.

Altra roba, insomma, rispetto ai neomarxisti come Bernie Sanders o agli “Sjw” (Social justice warrior) come Elizabeth Warren. Questa è l’immagine che tutti avevamo di Biden, anche al di fuori dei confini americani. Tale immagine, sembra tuttavia da ridiscutere in seguito all’annuncio del nuovo piano per la ripresa dell’economia statunitense, tutto a base di massicci investimenti pubblici – specialmente sulle infrastrutture – per creare lavoro e stimolare il mercato, da finanziare – ovviamente – mediante il debito obbligazionario e nuove forme di tassazione nei confronti del grande capitalismo, di quei “ricchi” tanto invisi a quell’estrema sinistra alla quale Biden sembra essersi arreso, almeno sul fronte economico.

Come osservato da alcuni commentatori americani e da più di qualche esperto di economia, si tratta di una ricetta politicamente buona, ma pessima dal punto di vista economico. Vale a dire che va bene per assicurarsi la fedeltà e l’appoggio dell’ultra-sinistra (oltre che ad accendere gli entusiasmi dei sostenitori, sempre più numerosi anche negli Usa, di una riforma del welfare in chiave “sociale”), ma che si rivelerà controproducente e distorsivo sull’equilibrio di mercato. Facile spiegare al cittadino medio che le grandi aziende devono pagare più tasse perché lui possa avere servizi migliori: un po’ più complesse sono le leggi dell’economia, che per fortuna non rispondono alle logiche del consenso proprie della politica. Il motivo di questo è semplice: le tasse preannunciate dal presidente Biden, che dovrebbero andare a colpire i grandi profitti e le rendite finanziarie, lungi dal riequilibrare il sistema economico, finiranno per privare molti operatori economici della capacità di reinvestire i capitali e di generare in questo modo sviluppo e nuova occupazione.

Infatti, le tasse hanno sempre un impatto più o meno forte sul comportamento degli attori economici e quasi sempre ne mutano le scelte e le azioni, determinando così un effetto a catena che finisce per incidere sull’andamento di tutto il sistema economico. Il pregiudizio alla base di questo modo di pensare lo conosciamo bene: la credenza che il lavoro si crei stimolando la domanda con investimenti pubblici e non mettere le imprese nelle condizioni di fare quello che per loro sarebbe naturale. Questo tipo di tasse sui “ricchi” influiscono particolarmente sugli imprenditori di successo, ma non solo. Se la tassazione colpisce i profitti, potrebbe determinare una minor propensione all’assunzione di rischi e agli investimenti. Questo, a sua volta, determina il blocco dell’espansione economica e la stagnazione dell’intero sistema. Particolare attenzione merita quest’ultimo aspetto: il dinamismo delle aziende è cruciale nell’attività di un sistema economico. Per mezzo di esso, vengono stimolati la concorrenza, l’efficienza, i nuovi investimenti per ampliare il proprio giro d’affari e la creazione di nuovi posti di lavoro.

Se questi fattori vengono inibiti da interventi distorsivi, che inducono mutamenti nelle scelte delle aziende – e le tasse sono l’intervento distorsivo per eccellenza – tutto questo non si verifica o si verifica solo in misura molto ridotta. Come giustamente osservano molti economisti americani, si tratta di un rischio molto serio, dal momento che le grandi aziende sono un motore della crescita e della riallocazione delle risorse verso le imprese più piccole e meno produttive. In altre parole, le tasse sui “ricchi” finiscono per essere anche tasse sui “poveri”. Per farla semplice, più denaro viene prelevato dallo Stato dai profitti delle imprese, meno queste ultime avranno la possibilità di reinvestirlo e di creare nuova occupazione e opportunità.

Ora, se questo è il piano per la ripresa post-pandemia, c’è da temere seriamente per il futuro. Se Biden pensa che il miglior modo per far ripartire l’economia americana sia quello di tassare le grandi imprese che danno lavoro, che reinvestono in nuova occupazione e progresso e che danno lavoro anche alle imprese più piccole, forse il consiglio più saggio che si possa dare al presidente statunitense è quello di cambiare i suoi strateghi economici. Oppure, molto più semplicemente, gli basterebbe ignorare i vari Sanders e Warren, che come nella miglior tradizione dell’estrema sinistra affetta dalla “sindrome di Robin Hood” credono che la soluzione a tutti i problemi siano gli espropri a mezzo fiscale, e che vedono nello Stato, e non quei pagatori di tasse che lo tengono in piedi e che gli permettono di disporre – il più delle volte arbitrariamente – dei loro soldi, il vero motore dell’economia di un Paese.


di Gabriele Minotti