Iran: la debolezza del regime dell’ayatollah

Tra crisi economica e accordi sul nucleare 

“Cercheremo di eliminare le sanzioni tiranniche imposte dall’America”. Sono queste le parole usate oggi dal presidente iraniano Ebrahim Raisi, il pupillo dell’ayatollah, eletto a giugno. Dopo aver ottenuto l’endorsement della guida suprema del Paese, Raisi ha promesso di migliorare le condizioni di vita del popolo iraniano, la cui metà vive sotto la soglia di povertà. Un effetto delle dure sanzioni imposte dall’Amministrazione Trump, dopo il ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare con la nazione centro-asiatica, che hanno affossato il riyal e l’economia iraniana. A questa situazione disastrosa, si deve aggiungere l’esacerbarsi dell’epidemia di Covid-19, con un totale di 3,9 milioni di contagiati e oltre 91mila morti. Lo stesso Raisi si trova, dal 2019, nelle mire degli Stati Uniti per il massacro di migliaia di prigionieri politici, avvenuto nel 1988, mentre ricopriva il ruolo di giudice nella Commissione della morte. Fatti da cui, peraltro, non si è mai ufficialmente distanziato.

Il rimpiazzo di Hassan Rouhani è stato esplicitamente incaricato da Ali Khamenei di “dare potere alle persone con basso reddito”, potenziando l’economia. Dopotutto, Raisi è, stando alle parole dell’ayatollah, “saggio, instancabile, esperto e popolare”. Le ultime elezioni ci consegnano un’immagine abbastanza desolante della supposta popolarità del presidente, visto che il regime è stato costretto ad ammettere, per la prima volta, una partecipazione inferiore al 50 per cento (48,8 per cento). I partiti d’opposizione arrivano, addirittura, a dichiarare che meno del 10 per cento degli aventi diritto è andato a votare. Questi dati riportano la sfiducia e la rabbia che la popolazione nutre per la teocrazia che regge la Repubblica islamica, un sistema corrotto che ruota attorno all’ayatollah e ai suoi fedelissimi. I segni di debolezza, anche a livello internazionale, cominciano però a mostrarsi.

A Rouhani era stato impedito di tentare di recuperare l’accordo sul nucleare, siglato nel 2015. Il ritiro degli Usa ha affossato la popolarità del leader più “moderato”, portando l’ayatollah a preferire qualcuno più in linea con la teocrazia. Ad aprile 2021 è iniziata una serie di incontri tra Iran e rappresentanti del mondo occidentale, per aggiornare e siglare un nuovo nuclear deal. La serie di sei meeting (l’ultimo datato 20 giugno), tenutasi a Vienna, è stata ovviamente bloccata dal cambio di governo in Iran, e un settimo incontro dovrebbe aver luogo attorno a metà agosto, ma Washington e Teheran non hanno ancora stabilito una data precisa. I rappresentanti della Repubblica islamica hanno, come sempre, sostenuto che il loro Paese non ha mai tentato di creare armi nucleari e che mai lo farà. Affermazioni che sostengono le dichiarazioni di ambo le parti, secondo cui rimangono ancora dei gap considerevoli nelle contrattazioni su un nuovo accordo.

Raisi dovrebbe adottare, nei prossimi vertici, un approccio “hard line”, sospetto in parte confermato dalla sua ferma volontà di “non legare l’economia alla volontà degli stranieri”. È anche vero che l’Iran ha già fatto passi avanti, sulla strada della riconciliazione con l’Occidente: limitare il programma nucleare, e rendere più difficile ottenere materiale fissile, in cambio di un sollievo dalle sanzioni. Evidentemente, la linea del saggio Raisi non sarà così dura. Che l’ayatollah tema una ribellione del suo popolo? Probabile, vista la povertà diffusa e la disaffezione nei confronti del regime. Gli Usa, forse, riusciranno a spuntarla e limitare nuovamente le capacità nucleari dell’Iran. Attendiamo il prossimo incontro a Vienna, per vedere come l’instancabile presidente deciderà di interpretare la volontà di Khamenei.

Aggiornato il 03 agosto 2021 alle ore 16:19