Caos a Tunisi: l’Ennahda d’annata

Le Primavere arabe? Dieci anni dopo la loro fioritura rimangono soltanto gli Inverni dei popoli arabi e dei loro leader. La Tunisia è l’ultimo focolaio di entusiasmo a spegnersi come una candela fusa, un orto inaridito dove non cresce più l’idea di futuro, dopo che la parola Democrazia aveva ispirato fiducia e speranza in migliaia di illusi, tra giornalisti e intellettuali occidentali di rango, con il cuore e la tastiera saldamente a sinistra. Nessuno di loro, tranne il grande Domenico Quirico (si veda il suo brillante intervento dissacratore su La Stampa del 30 luglio), ha mai avuto la benché minima percezione ed esperienza diretta di come andassero le cose sul campo. Nessuno che, in questi ultimi dieci, illusori anni, abbia mai detto le scomode, imbarazzanti verità che riguardano da vicino il regime tunisino, supposto democratico, grazie alla conversione al pluralismo della concessionaria tunisina del movimento fondamentalista dei Fratelli Musulmani, nota come Partito dell’Ennahda di cui si dicevano meraviglie, in quanto considerata un fulgido esempio di Partito islamico moderato. Termine, quest’ultimo, che non significa assolutamente nulla nella Regola maomettana, che fa coincidere indissolubilmente Chiesa e Stato, per cui nessuna legislazione laica risulta di fatto ammissibile e tanto meno compatibile con i precetti del Corano. Quindi, come dicono i francesi, si è trattato di un gioco di passe-passe (cose da prestigiatori della parola) o, meglio, di marché de dupes, o mercato degli inganni.

Nessun leader o esponente tunisino, infatti, è noto per aver interiorizzato e approfondito seriamente il significato del termine Democrazia, che è stato utilizzato come una merce di scambio da tutti i mercenari della politica tunisini, abituati da sempre al suq dei favoritismi, della corruzione e del clientelismo più becero e viscerale che si possa immaginare, soprattutto per quanto riguarda le assunzioni nell’unica, vera fabbrica di lavoro della Repubblica tunisina: il Pubblico Impiego! Del resto, la lezione epocale impartita all’America e al suo velleitario e utopistico Nation Building, fallito clamorosamente in Vietnam del Sud, Iraq e Afghanistan (con il suo pesante tributo di vite umane, militari e civili, e di trilioni di dollari spesi inutilmente per sostenere le famose Guerre che non finiscono mai) dovrebbe aver insegnato all’Occidente che, semmai, ci vogliono secoli perché metta radici autoctone il concetto stesso di democrazia. Principio, quindi, che non potrà mai essere importato né trapiantato, ma semplicemente vissuto e condiviso come valore profondo e norma fondamentale della convivenza civile, nell’ambito di una civiltà moderna secolarizzata. La regola democratica, cioè, rappresenta la sintesi di una scelta collettiva alternativa alla semplice declinazione dei rapporti di forza, prerogativa invece irrinunciabile, quest’ultima, per l’Islam intollerante praticato dai regimi fondamentalisti e dai movimenti islamici ortodossi, come l’Ennahda e i Fratelli Musulmani, in cui i concetti di religione e Stato coincidono.

In questi ultimi dieci anni, la Tunisia era rimasto l’unico Paese arabo a garantire per legge la libertà di espressione e di opinione, nonché quella della scelta religiosa. Storicamente un’eccezione, dato che di regola la strada maestra per uscire dalla dittatura passa, nei Paesi arabo-musulmani, per la rivoluzione o la guerra civile, con tutti gli orrori che ne conseguono. Del resto, autocrati come l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi e Recep Tayyip Erdogan sono i garanti laici di una società che rimane fondamentalmente islamica, come religione di Stato. Ma, mentre il primo si è contraddistinto nella repressione contro i Fratelli Musulmani, viceversa l’autocrate turco si atteggia ad alfiere internazionale dello stesso Movimento fondamentalista. Tra l’altro, i due leader musulmani sono i principali rappresentanti di altrettanti fronti contrapposti del conflitto intersunnita, che divide i fautori di un Islam rigorosamente ortodosso, come Qatar e Turchia, da quelli più moderati e filo occidentali come l’Egitto e gli Emirati arabi. Finora, l’esempio di Tunisi sembrava smentire nei fatti lo scetticismo dell’Occidente, a proposito della solubilità dell’islamismo all’interno di una matrice democratica del potere. Di fatto, anche nel caso della Tunisia, mafie e servizi di sicurezza continuano a fare il bello e il cattivo tempo, come accade nel resto dei regimi arabi secolari o in quelli fondamentalisti, in assenza di un sistema affidabile di controlli esterni e interni.

Fintanto che queste situazioni di ingiustizia e di arbitrio saranno i fatti politici prevalenti in Medio Oriente e dintorni, milioni di giovani tenteranno di trovare nella fuga a ogni costo dai loro Paesi di origine l’unico rimedio per sfuggire alla miseria e alla tirannia. Se l’Europa non sarà in grado di definire canali legali per l’immigrazione qualificata da Siria, Libia, Marocco, Algeria e Tunisia i candidati, soprattutto giovani, all’immigrazione clandestina continueranno a rivolgersi agli scafisti, e a risparmiare il denaro necessario alla traversata, sottraendolo dagli investimenti produttivi nei loro Paesi. Sotto tutti i profili, appare piuttosto chiaro come il sistema tunisino evolva verso una soluzione di tipo egiziano, in cui il presidente Abdel Fattah al-Sisi, sostenuto dai militari, ha estromesso dal potere i Fratelli Musulmani con un colpo di Stato. Del resto, alla democrazia tunisina manca una Corte costituzionale (pur prevista, ma i cui membri non sono mai stati nominati) che svolga un ruolo di giudice terzo tra presidente e Parlamento, per venire a capo dell’attuale braccio di ferro tra i due maggiori poteri costituzionali, presidente (eletto direttamente dal popolo) e Parlamento.

La mossa di Kaïs Saïed, d’altra parte, sembra essere gradita dalla piazza, come contrappeso all’onnipresenza degli islamisti ai vari livelli amministrativi del governo centrale e locale. Il presidente tunisino, per quanto lo riguarda, sogna un regime in cui comanda uno solo (lui stesso) fondato su una sorta di democrazia diretta, per cui la sola elezione di primo grado è quella dal basso degli enti locali (che, poi, sono consultazioni nettamente caratterizzate da elevate dosi di clientelismo e di nepotismo), mentre i livelli successivi, provinciali e nazionali, sono stabiliti da progressive elezioni di secondo grado, con il risultato concreto (vista la realtà tunisina!) di consolidare il regime di favoritismi, che riguardano la spartizione dei seggi da parte dei rais locali e nazionali, in base a criteri di designazione che restano sostanzialmente tribali. Questa oggi la realtà che ci riguarda da vicino, in attesa di raccontare la tempesta in divenire.

Aggiornato il 03 agosto 2021 alle ore 11:04