“Il futuro del Gop tra Trump e DeSantis”

domenica 4 dicembre 2022


Andrea Di Giuseppe è l’unico candidato del centrodestra eletto alla Camera come rappresentante degli italiani all’estero. Nato a Roma e imprenditore per tradizione familiare, nel 2011 ha ottenuto la cittadinanza statunitense e attualmente fa la spola tra Miami e la Capitale. Tim Phillips, presidente dal 2006 al 2021 di Americans for Prosperity, un gruppo di pressione liberalconservatore fondato dai fratelli Koch, è lo stratega repubblicano che ha contribuito a portare il movimento Tea Party nel mainstream del pensiero repubblicano negli Stati Uniti. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Di Giuseppe e Phillips, in Italia, proprio nei giorni successivi alle elezioni di midterm. Ne è nata una “doppia intervista” nella quale il risultato elettorale viene analizzato da questa duplice prospettiva.

Forse l’onda rossa repubblicana alle elezioni di midterm non è stata impetuosa come si aspettavano molti analisti. Resta il fatto, però, che il Gop ha riconquistato il controllo della Camera. Quale sarà l’impatto di questo risultato sui prossimi due anni di Amministrazione Biden?

ANDREA DI GIUSEPPE. Biden ha mantenuto il controllo del Senato e non ha avuto un tracollo alla Camera, pur perdendo la maggioranza per pochi voti, permettendogli di confermare la sua agenda senza dover modificare in modo significativo le sue priorità. D’altro lato, per i Repubblicani sarà più facile poter esercitare una funzione di opposizione sistematica e quindi di rallentamento, se non di blocco, di alcuni aspetti della politica democratica. È probabile quindi che Biden dovrà basarsi in modo più diffuso sugli Executives Orders che però hanno un ambito più ristretto. La possibilità di vedere le due Camere lavorare assieme in modo bipartisan, seppur auspicato, sarà molto difficile da attuare vista l'estrema polarizzazione delle due parti politiche.

TIM PHILLIPS. La vittoria repubblicana alla Camera, anche se risicata, significa uno stallo sui progetti più ambiziosi dell’Amministrazione. L’agenda di Biden (Green New Deal, diritto all’aborto, massiccia spesa pubblica) sarà fermata. Anche se, senza la maggioranza al Senato, i repubblicani non saranno in grado di far passare le loro proposte. In secondo luogo, esercitando il controllo della Commissioni alla Camera, i Repubblicani lanceranno un grande numero di investigazioni sull’Amministrazione Biden che metteranno il Presidente sulla difensiva. Penso soprattutto alle questioni legate al figlio Hunter, a come è stata gestita la fase pandemica, alla soppressione della libertà di parola sui social media e a molti altri argomenti.

I media parlano di un problema di “qualità” dei candidati repubblicani, soprattutto in alcuni stati-chiave al Senato. Lei è d’accordo con questa interpretazione? E che ruolo ha avuto l’ex Presidente Trump nella selezione di questi candidati?

ANDREA DI GIUSEPPE. Alcuni candidati in ruoli chiave non avevano un background politico e di esperienza sul campo da renderli facilmente apprezzabili e credibili ad un vasto elettorato. Il partito Repubblicano ha forse pagato un effetto marketing dove si è ritenuto sufficiente un buon budget e una decente comunicazione per cavalcare l’onda rossa. Trump è una presenza ancora importante nel panorama politico repubblicano, alcune sue scelte hanno pagato e molti suoi candidati hanno vinto, però è altresì vero che in alcuni stati-chiave i suoi candidati non hanno raggiunto il risultato sperato. I Repubblicani si sono resi conto che un endorsement di Trump non è più una certezza di una vittoria elettorale. Il vero tema è che i candidati dovrebbero provenire dal territorio dove si candidano. Solo in questo modo la gente potrà dare una preferenza basata su azioni passate.

TIM PHILLIPS. Senza dubbio gli endorsement dell’ex Presidente Trump hanno contribuito a nominare candidati che hanno perso in elezioni decisive al Senato, alla Camera e alle poltrone di governatore. Masters e Lake in Arizona, Oz e Mastriano in Pennsylvania, Walker in Georgia, Dixon in Michigan e una serie di deboli candidati al Congresso hanno faticato e, in molti casi, hanno perso. In Arizona, per esempio, Blake Masters al Senato e Keri Lake per il posto di governatore (i due candidati sostenuti da Trump) hanno ottenuto risultati peggiori degli altri candidati repubblicani alla segreteria di stato, al Congresso, o alla Camera e Senato dello stato. Queste scarse performance elettorali stanno spingendo molti elettori conservatori ad avere dei dubbi sull’opportunità di una ricandidatura di Trump alle presidenziali del 2024. Anche tra chi è stato soddisfatto dei quattro anni di amministrazione repubblicana, apprezzando il modo con cui l’ex Presidente ha combattuto la battaglia contro la sinistra, c’è chi sente il desiderio di guardare al futuro. E molti sono stanchi di tutti i drammi legati alla strabordante personalità di Trump. Questo apre una possibilità ad altre potenziali candidature alla presidenza, come quelle del governatore Ron DeSantis, del senatore Tim Scott, del governatore Glenn Younkin, del senatore Ted Cruz, dell’ex segretario di stato Mike Pompeo e dell’ex vicepresidente Mike Pence.

La Florida, da decenni “swing state” per eccellenza, sembra essere diventato un “red state” inattaccabile. Perché? E quale ruolo ha avuto il governatore DeSantis in questo storico successo per i Repubblicani?

ANDREA DI GIUSEPPE. La vittoria in Florida è stata eccezionale e di dimensioni del tutto inaspettate, anche se Repubblicani partivano da una posizione di leggero vantaggio. Da stato sempre in bilico ora sembra davvero che abbia assunto una tonalità rossa non cancellabile nel breve. DeSantis è stato ovviamente la ragione di tale successo. Tra le altre cose, ha saputo far virare la componente ispanica dalla parte repubblicana con chiari programmi di inclusione negli ultimi anni e indubbiamente ha avuto coraggio e capacità nel gestire l’epidemia di Covid in un modo del tutto unico che gli è stato riconosciuto con un plebiscito dagli elettori.

TIM PHILLIPS. Le ragioni per cui la Florida, da “purple” swing-state è diventata un “red state” affidabile sono principalmente tre. Per prima cosa, le audaci politiche conservatrici portate avanti dal Partito Repubblicano stanno funzionando, perché hanno aumentato la prosperità economica, migliorando la qualità della vita e rafforzando la libertà individuale. I Repubblicani hanno tagliato le tasse, tenuto aperte le scuole e le imprese durante la pandemia, protetto i diritti dei genitori di prendere decisioni chiave su come educare i propri figli, represso i crimini violenti, fermato le irritanti mosse culturali “woke” della sinistra e altro ancora. In secondo luogo, gli americani degli stati “blu” cominciano ad accorgersi della differenza e stanno lasciando stati come California, New York, Illinois, ecc. (tutti stanno perdendo popolazione) e la Florida è la loro destinazione principale. Arrivano in Florida e votano repubblicano. In terzo luogo, gli elettori ispanici, che sono il gruppo etnico più numeroso e in più rapida crescita in Florida, si stanno spostando rapidamente e in modo significativo dal Partito Democratico al Partito Repubblicano. La più grande contea latina della Florida (Dade) quest’anno ha votato repubblicano. Il governatore DeSantis è il chiaro leader di questa rinascita repubblicana. E quindi si merita tutti i riconoscimenti che gli vengono attualmente attribuiti.

Donald J. Trump ha annunciato la sua candidatura alle presidenziali del 2024. Troverà degli avversari seri alle primarie del Gop? E potrebbe essere proprio DeSantis il più pericoloso?

ANDREA DI GIUSEPPE. Questo è scritto nelle stelle e lo sapremo solo tra circa 14 mesi. Quello che è certo è che il Partito Repubblicano deve decidere se mantenere o meno Trump come leader oppure cercare di averlo solo come figura di riferimento ma nell’ombra di un candidato diverso. Vedremo se Trump accetterà di fare un passo indietro o anche solo un passo di lato. Nelle prossime elezioni presidenziali vincerà chi riuscirà a far breccia e raccogliere consensi nella parte indipendente dell’elettorato. Come Floridian posso dire che l’amministrazione DeSantis è stata ineccepibile e che, dati alla mano, in Florida lo stesso DeSantis ha saputo aggregare molti più elettori della base storica Gop.

TIM PHILLIPS. Trump inizia la sua campagna verso il 2024 con una base di fundraising molto forte e il sostegno incondizionato da parte di milioni di elettori conservatori in tutta la nazione. Tuttavia, è più debole di quanto non fosse qualche mese fa. La performance repubblicana nelle elezioni del 2022 e il suo ruolo in questa performance lo hanno ferito. E credo che dovrà affrontare diversi importanti oppositori per la nomination repubblicana. Il governatore Ron DeSantis, se correrà come previsto, sarà certamente l’avversario più pericoloso. Candidarsi alla presidenza, però, non è affatto semplice. È difficile, infatti, prevedere come si comporterà un candidato sotto i riflettori della politica nazionale. E molti altri candidati potrebbero giocare un ruolo importante nella contesa: il governatore Glenn Youngkin della Virginia, il senatore Tim Scott della Carolina del Sud, l’ex vicepresidente Mike Pence, l’ex ambasciatore dell’Onu Nikki Haley, l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e altri. Sarà un campo forte. La chiave: dovranno essere rispettosi e riconoscenti per le politiche promosse da Trump che hanno aiutato la nostra nazione, pur continuando a sostenere che è tempo per una nuova leadership.

Quali saranno le difficoltà per il prossimo Speaker repubblicano della Camera nel gestire una maggioranza ristretta come quella che emerge dalle urne?

ANDREA DI GIUSEPPE. È possibile che la sua maggiore difficoltà possa derivare proprio dalla gestione dei suoi stessi deputati repubblicani. Avendo una maggioranza così “risicata”, ogni voto potrà contare doppio e magari alcuni repubblicani vorranno sottolineare tale importanza.

TIM PHILLIPS. Kevin McCarthy è un politico duro, intelligente ed esperto che merita molto rispetto per aver reclutato ottimi candidati e poi averli supportati con enormi quantità di denaro e competenza. Dovrà affrontare un gruppo centrale Maga (Make America Great Again, ndr) determinato ma piccolo all’interno dell’House Republican Caucus che si oppone a lui come presidente, ma dovrebbe essere in grado di superare la loro opposizione e ottenere abbastanza voti per vincere. La sua maggioranza ristretta (probabilmente finirà con 222 repubblicani contro 213 democratici) significa che dovrà bilanciare attentamente il piccolo numero di membri intransigenti del Maga con il piccolo numero di repubblicani moderati della Camera. Questo limiterà i suoi spazi politici di manovra e la gamma delle sue opzioni, costringendolo a negoziare la maggior parte delle mosse con questi due gruppi. Idealmente, conquistare 240 seggi alla Camera e questo gli avrebbe permesso di muoversi con più coraggio, perché avrebbe potuto permettersi di rinunciare dai 15 ai 20 deputati su qualsiasi votazione e vincere comunque. Ora, invece, dovrà cercare di tenere tutti insieme (tranne, magari 3 o 4 deputati) in ogni votazione. È una sfida difficile.

È possibile, per gli elettori di una democrazia storica come quella statunitense, essere costretti ad aspettare più di una settimana per conoscere i risultati definitivi di una competizione elettorale? Cosa si può fare per “normalizzare” questa situazione?

ANDREA DI GIUSEPPE. Si tratta di un fatto vergognoso che non ha scusanti. Tutti lo sanno e tutti lo denunciano da anni. Ma purtroppo alcune recenti scelte da parte di alcuni stati hanno addirittura peggiorato la gestione dello spoglio. Per normalizzare ci vorrebbe una coscienza comune del problema e un approccio bipartisan per andare alla radice del tema e questa volontà comune, nei fatti, non sembra esserci.

TIM PHILLIPS. La mossa dei Democratici, negli stati “blu” da loro controllati, di istituire un sistema universale di voto per posta, che spesso permette di contare le schede elettorali anche se arrivano giorni dopo le elezioni, ha notevolmente rallentato il conteggio dei voti negli stati democratici come California, Oregon, New York, ecc. Questo non è salutare per la democrazia rappresentativa. Tuttavia, con il nostro sistema federale, che consente a ogni stato di prendere decisioni per se stesso su questioni non delegate al governo nella nostra Costituzione, ogni stato decide come condurre le proprie elezioni.

Quale impatto potrebbe avere il cambio di maggioranza alla Camera sulla politica estera degli Stati Uniti, con particolare riferimento a Ucraina, Iran e Taiwan?

ANDREA DI GIUSEPPE. Tema molto interessante e potenzialmente molto pericoloso. La posizione sull’Ucraina la si capirà a breve nel momento in cui gli Usa dovessero approvare un nuovo capitolo di spesa per altri aiuti militari alle truppe di Zelensky. Non tutti i repubblicani sembrano favorevoli quindi è possibile che andranno alla conta dei voti. Difficile invece pensare che qualcosa possa cambiare per Iran e Taiwan: ci sono in gioco ruoli ed equilibri troppo grandi per rischiare una discontinuità.

TIM PHILLIPS. La nuova maggioranza repubblicana alla Camera continuerà a sostenere la fornitura di assistenza all’Ucraina con dollari e armi. Tuttavia, credo che ridurranno la quantità totale di sostegno da ciò che Biden e i Democratici stavano fornendo. Ironia della sorte, i repubblicani e i democratici più moderati condividono l’impegno ad aiutare l'Ucraina e Taiwan, mentre i repubblicani di estrema destra e i democratici di estrema sinistra vogliono ridurre drasticamente questo sostegno. C’è pochissimo consenso in entrambe le parti, invece, per consentire all’Ucraina di aderire alla Nato. Sull’Iran, al contrario, c’è un’enorme differenza tra le due parti. I Democratici vogliono concludere un accordo sul nucleare con l’Iran. Credono che negoziare con l’Iran e scendere a compromessi con Teheran, elevando al contempo il processo di pace tra palestinesi e Israele, sia la strada migliore. I Repubblicani, invece, si oppongono fermamente all’accordo sul nucleare iraniano che giudicano, giustamente, appeasement. I Repubblicani mettono l’amicizia con Israele al centro della nostra politica in Medio Oriente e sostengono gli Accordi di Abramo che hanno costruito una forte coalizione arabo-israeliana contro l’Iran e contro gruppi terroristici come Hamas e Hezbollah.

Dopo una lunga settimana di conteggi, alla fine la maggioranza alla Camera è stata conquistata (oltre che in Florida) grazie ad alcuni seggi vinti dal Gop in California e nello stato di New York. È soltanto una coincidenza oppure il segnale che qualcosa sta cambiando nella polarizzazione geografica (e demografica) dell'elettorato americano?

ANDREA DI GIUSEPPE. Credo sia un inequivocabile segnale, l’ennesimo peraltro, che in quegli stati definiti ultra-progressisti e iper-liberal alcune delle loro scelte hanno portato a vette troppo difficili da esser accettate, comprese e digerite da un vasto elettorato. La sindrome dell’élite sembra averli imprigionati. Un segnale che è emerso con evidenza anche in Europa nelle elezioni degli ultimi anni in diversi stati. Anche qui negli Stati Uniti, la parte più radicale della sinistra americana ha scelto delle posizioni che li sta allontanando da un elettorato moderato ed indipendente e questo, nel medio e lungo periodo, potrebbe essere un fattore di debolezza. La California non attrae più come luogo ideale per vivere ed iniziare una attività, anzi è in corso essere una vera e propria migrazione al contrario.

TIM PHILLIPS. Politicamente e filosoficamente, gli Stati Uniti sono al momento molto divisi. I Democratici mantengono il controllo del Senato per un voto. I Repubblicani hanno una maggioranza risicata alla Camera. I Democratici hanno la Casa Bianca con Biden ma si tratta comunque di un presidente impopolare. I Repubblicani conservano (per poco) il comando a livello statale nei governatorati e negli organi legislativi statali. Il potere politico ha oscillato avanti e indietro tra i due partiti molto più spesso negli ultimi 16 anni di quanto sia normale, storicamente parlando. Credo che il 2024 porterà una vittoria più incisiva per una delle due parti rispetto a quello a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio. Repubblicani e Democratici devono quindi affrontare enormi opportunità, ma anche enormi sfide. Sarà una battaglia politica molto dura, ma affascinante.


di Andrea Mancia